La sinistra italiana è ormai un universo autosufficiente. Un aggregato di forze politiche in cui c’è un po’ di tutto, al punto che se d’improvviso tutti gli altri partiti scomparissero per magia, ci sarebbero ancora abbastanza proposte politiche per coprire tutto l’arco parlamentare senza cadere in particolari contraddizioni. In questo senso la sinistra italiana è diventata una riproposizione in miniatura di un classico panorama politico nazionale.

C’è un partito di centro-destra, il Pd, che sostanzialmente propone come antidoto alla disoccupazione e alla stagnazione economica la flessibilizzazione e la precarizzazione del lavoro. C’è un partito di centro-sinistra, diviso in due tra gli scissionisti dell’Mdp e Sinistra Italiana, che ritiene che non si possa uscire dalla crisi se non attraverso un forte intervento pubblico a suon di investimenti. C’è un partito di centro, il Campo Progressista di Pisapia, dalle posizioni piuttosto indefinite, educato, composto, istituzionale, apparentemente disinteressato alle questioni di politica economica, e quindi perfetto per soddisfare le aspirazioni radical-chic metropolitane. E per finire, andando oltre le forze rappresentate in Parlamento, ci sono tanti piccoli partiti radicali legati a un linguaggio ed a un’iconografia da fare accapponare la pelle alla sinistra che è al governo.

Secondo molti commentatori la recente scissione del Pd sarebbe incomprensibile e frutto soltanto di rivalità personali. Io sono in completo disaccordo, perché è difficile pensare a una scissione con più giustificazioni teoriche di questa. Ciò non esclude che le giustificazioni programmatiche siano state usate da singoli attori come pretesto per dare sfogo a risentimenti personali, o per risolvere problemi legati alla composizione delle liste, e neppure che la ricaduta brusca in un orizzonte proporzionale abbia dato la luce verde agli scissionisti. Ma da un punto di vista formale non sembra esserci nulla di contraddittorio. Il Pd renziano e quello dei fuoriusciti sono in disaccordo praticamente su tutto. Il lavoro, la scuola, la pubblica amministrazione, le riforme costituzionali, la separazione di ruoli tra segretario del partito e capo del governo. Volendo porre la questione in termini più simbolici, davvero non si capisce come un gruppo politico che presenta il suo programma sulle note di “bandiera rossa” possa supportare il governo di un Premier che dopo la sconfitta al referendum va in visita alla Silicon Valley per cercare nuova ispirazione e capire come arginare i populismi europei.

Detto ciò però, resta da chiedersi seriamente, secondo me, a cosa serva esattamente la sinistra della sinistra, e che ruolo possa avere oggi in Italia. Negli ultimi mesi una risposta sembra essere arrivata dal Portogallo, dove una coalizione della sinistra più moderata e di quella più radicale ha inaspettatamente preso le redini del governo e in meno di due anni ha ridotto deficit, debito pubblico e disoccupazione, riportando il Paese a crescere. Tutto ciò è avvenuto perché i socialisti del Premier António Costa da una parte e i deputati del Bloco de esquerda e del Partito comunista Portoghese dall’altro si sono incontrati a metà strada. I primi hanno accettato di mettere in atto un piano keynesiano di rilancio dell’economia, aumentando i salari minimi, le pensioni, riducendo le ore di lavoro, investendo nuovi fondi nel settore pubblico, in particolare nella sanità e nell’istruzione. I secondi, di tradizione anticapitalista e antiimperialista, sono scesi a compromesso, e in cambio di questo programma anti-austerity, hanno lasciato in uno stato di latenza le loro pretese più radicali, come ad esempio l’uscita dall’euro o dalla Nato. I risultati sono stati folgoranti, se consideriamo che il Portogallo ha un debito pubblico enorme (poco meno di 250 miliardi di euro), che mai il deficit è stato così basso (2,1 percento del Pil) da quando è tornata la democrazia nel 1974, e che la disoccupazione è calata per la prima volta da 8 anni a questa parte.

Non c’è quindi da sorprendersi del fatto che Lisbona sia diventata meta di pellegrinaggio per i socialdemocratici europei che cercano un modo per arginare il loro lento crollo e allo stesso tempo costruire una risposta credibile alla destra populista ora in ascesa e più in generale a tutti i movimenti centrifughi che agitano l’Unione Europea. In questa ottica il ruolo dei piccoli partiti non è certo marginale. Ma è possibile riproporre lo schema portoghese in un sistema come quello italiano in cui l’unica sponda disponibile per i piccoli partiti di sinistra è un partito di centro-destra come il Pd? Il rischio, chiaramente, con l’attuale legge elettorale è che gli scissionisti e Sinistra Italiana vadano da soli per raccogliere i voti di chi si sente lontano dal nuovo Pd per poi portarli in dono allo stesso Pd in un’alleanza post elettorale.

E in effetti la nota e dichiarata contrarietà del Movimento 5 Stelle ad ogni forma di alleanza, il rischio dell’ingovernabilità, e il fatto che ci troviamo ormai in una situazione tripolare fornirebbero la giustificazione per i più arditi e disparati tentativi di alleanza. In un’eventuale coalizione post-elettorale di tutte le forze che si dichiarano di sinistra è obiettivamente molto difficile che si raggiunga un compromesso progressista come quello portoghese, soprattutto se consideriamo le posizioni politiche da cui partirebbe il principale azionista di questa eventuale coalizione, il Pd renziano. Gioverebbe forse a tutti gli attori minori dell’arcipelago che galleggia alla sinistra del Pd un chiarimento pre-elettorale sui limiti che si daranno a urne chiuse nel redigere programmi di governo di eventuali alleanze. Ciò renderebbe sicuramente più credibile la loro proposta elettorale, perché confuterebbe, o confermerebbe, il rischio che i voti di chi a sinistra vota contro Renzi tornino ripuliti e impacchettati allo stesso ex Premier.

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