Non ha mai amato i coretti unanimi, la tv confidenziale e tranquillizzante. Gianni Boncompagni, classe 1932, è stato uno dei più grandi giganti della storia televisiva italiana. Provocatore per indole, bastiancontrario per diletto, per cinquant’anni ha costruito miti e leggende dello spettacolo, li ha furbescamente infiocchettati, farciti di genialità e al tempo stesso di ammiccamenti nazionalpopolari e li ha dati in pasto al grande pubblico.

Si divertiva a esser cattivo, a sfottere il politicamente corretto ancor prima che andasse di moda, andava controcorrente per il solo gusto di farlo. Nella sua lunghissima carriera è ripartito quasi da zero tantissime volte, perché una volta raggiunto la vetta non si è mai adagiato. Era troppa la voglia di sperimentare, di innovare, di mettere in crisi le certezze dell’Italia piccolo borghese, che riusciva al contempo a fare indignare e a conquistare. Nessuno, prima di lui, aveva innovato, ad esempio, la comicità in televisione. Due personaggi assurdi, marziani, differenti come Giorgio Bracardi e Mario Marenco, ad esempio, potevano trovare spazio solo nel “minimondo” creato dal burattinaio Boncompagni.

La dicotomia tra innovazione e istinto paraculo sarà la cifra stilistica dell’intera carriera del regista, anche nelle vesti di paroliere di musica leggera. Basti pensare che sono sue sia la classicissima Il Mondo di Jimmy Fontana che Ragazzo Triste di Patty Pravo, decisamente più rivoluzionaria e al passo con le istanze pressanti della gioventù di fine anni Sessanta. In tv, poi, Boncompagni ha compiuto i capolavori più mirabili. A cominciare da Discoring, primo vero grande programma interamente dedicato alla musica della televisione italiana, che in breve tempo è diventato, sul finire degli anni Settanta, un appuntamento fisso per grandi ospiti italiani e internazionali.

E se Raffaella Carrà è diventata la leggenda che è diventata, gran parte del merito va proprio a Boncompagni, compagno di vita ma anche autore di alcuni tra i brani più cult della showgirl emiliana e suo Pigmalione, mentore e consigliere ascoltatissimo. Negli anni Ottanta, con Pronto, Raffaella?, innova anche una fascia prima ostica per la Rai come quella del mezzogiorno. Tra fagioli da contare a occhio e ospitate di Madre Teresa, l’appuntamento del mezzogiorno di RaiUno era diventato un cult, come quasi tutto quello che ha anche solo sfiorato Gianni Boncompagni nel corso della sua carriera. Verso la fine degli anni Ottanta, arrivato al top dell’intrattenimento popolare con Domenica In, Boncompagni decide che è il momento di ricominciare di nuovo. Ha bisogno di nuove sfide e trova l’atmosfera giusta in Fininvest, dove lo spregiudicato Berlusconi è il “compare” perfetto per lanciare la sua nuova creatura. Nuovo programma, nuovo fenomeno di costume: è Non è la Rai, la trasmissione che per quattro anni non ha solo intrattenuto milioni di persone ma ha fatto anche discutere intellettuali, politici, cantanti, scrittori, con la generazione di Lolite lanciate senza rete nel per nulla magico mondo dello spettacolo. Le adolescenti che si dimenavano di fronte alle telecamere (e sgomitavano tra loro per una inquadratura in più), hanno anticipato di parecchi anni quello che sarebbe successo alle nuove generazioni del Terzo Millennio. Prima dei millenials, le ragazze di Non è la Rai, con Ambra Angiolini nuovo feticcio costruito a tavolino da Boncompagni e dato in pasto a un pubblico affamato di idoli catodici da adorare. Gli anni di Non è la Rai, tra accuse di ammiccamenti morbosi delle giovani protagoniste e critiche al presunto vuoto intellettuale che il programma rappresentava secondo molti critici, hanno rappresentato una nuova pietra miliare nella storia della tv, fino a quando, nel 1995, Boncompagni non aveva deciso di distruggere il giocattolino.

E sempre in Fininvest, nel 1991, si era persino permesso il “lusso” di far condurre un programma (Primadonna) alla transessuale Eva Robin’s. Perché ciò che era vietato per i comuni mortali, Boncompagni riusciva a farlo quando, dove e come voleva. L’ennesimo, nuovo inizio, è stato segnato da Macao, programma di RaiDue della seconda metà degli anni Novanta durato meno di due stagioni, ma che nel corso della prima (condotta da Alba Parietti) era riuscito a lanciare personaggi e tormentoni nuovi, segnando di nuovo il costume italiano.

Deve molto a Boncompagni anche Piero Chiambretti, che proprio con il regista aretino, nel 2002, si era definitivamente levato di dosso i panni del “compagno” di TeleKabul grazie a Chiambretti c’è, con l’indimenticabile tavolata blasonata (ma cafonissima al contempo) di casa Balestra e il lancio televisivo della sin troppo verace contessa De Blanck. Dall’innovazione colta dei primi anni ai tormentoni pop e financo trash delle ultime esperienze, Gianni Boncompagni ha dimostrato semplicemente di essere stato in grado di fare quello che ha voluto. Sempre e comunque. Oggi, nell’epoca dei social network, forse potremmo definirlo un “troll” ante-litteram, il padre di tutti i perculatori, un uomo che in cinquant’anni di carriera è riuscito a far piacere agli italiani tutto e il suo contrario, a seconda dei sui ghiribizzi del momento. L’auricolare, in realtà, non lo indossava solo Ambra a Non è la Rai. Tutti noi siamo stati eterodiretti da una delle menti più vivaci e intelligentemente diaboliche della storia della cultura pop in Italia.

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