Almeno un miliardo l’anno di ulteriori risparmi per i ministeri. Nuovi “interventi di contrasto all’evasione” che, insieme alla spending review, dovrebbero consentire di non far scattare le famigerate clausole di salvaguardia che per il solo 2018 valgono quasi 20 miliardi. Infine, il solito programma di privatizzazioni da cui si contano di ricavare 5 miliardi l’anno di qui al 2020, anche se nel 2016 l’esecutivo Renzi ha dovuto ammettere un pesante flop delle previsioni di introiti da questo capitolo di entrata. Il Documento di economia e finanza del governo Gentiloni, pubblicato sul sito del Tesoro il giorno dopo il consiglio dei ministri che l’ha varato, è per molti versi un libro dei sogni. A partire dall’indicazione del rapporto deficit/pil 2018, previsto all’1,2%: per metterlo davvero a segno bisognerebbe stanziare solo per questo nella prossima legge di Bilancio, di cui il Def è la cornice, oltre 15 miliardi.

“Taglio del deficit all’1,2% del pil? Non sta né in cielo né in terra” – Non a caso il premier ha anticipato che su questo intende trattare con Bruxelles (“lavoreremo convinti che la discussione avviata in Ue possa portare a esiti positivi”). Nel frattempo, nel Def finisce un numero scritto sull’acqua. “Non sta né in cielo né in terra, non lo faranno mai”, è il commento dell’economista Roberto Perotti, ex consigliere economico del governo Renzi per la revisione della spesa, che a fine 2015 diede le dimissioni spiegando che “non si sentiva molto utile”. “In vista di un anno elettorale un governo debole e senza autonomia come quello di Gentiloni non adotterà mai le misure (tagli di spesa o aumenti di tasse) necessarie per ridurre il disavanzo di un ammontare del genere”, è la previsione del docente della Bocconi. “Ci si può già mettere una pietra sopra. La lotta all’evasione? Non è che da un anno all’altro puoi pensare di ricavare 6 miliardi in più”.

La missione impossibile delle clausole di salvaguardia – Il documento messo a punto dai tecnici di via XX Settembre assicura poi che “nei prossimi tre anni si prevede la disattivazione delle clausole di salvaguardia”, cioè gli aumenti di Iva e accise previsti dai precedenti governi per assicurare a Bruxelles che i nostri bilanci rimanessero sostenibili anche se una parte delle entrate previste non si fosse concretizzata. Queste “cambiali fiscali” valgono, per il 2018, circa 19,6 miliardi. Il governo ritiene di essere in grado di trovarli senza far aumentare le imposte, facendo leva solo su “recuperi di gettito a parità di aliquote” e “una nuova revisione della spesa”, a cui “le sole amministrazioni centrali dello Stato contribuiranno al conseguimento degli obiettivi programmatici con almeno un miliardo di risparmi di spesa all’anno”. Insomma, la manovra autunnale partirebbe da una base di 19,6 miliardi di coperture da trovare prima ancora di aggiungere al conto finale le uscite per il rinnovo del contratto degli statali, la decontribuzione per i giovani neoassunti, il taglio del cuneo fiscale per le donne e altre misure anticipate nel Piano nazionale di riforma che accompagna il Def. Secondo Perotti lo scenario più probabile è che “alla fine faranno slittare le clausole all’anno successivo, anche se la riforma del bilancio lo vieterebbe”. Quanto alla spending review dei ministeri, da dettagliare con il decreto ad hoc di Palazzo Chigi previsto dalla nuova legge sul bilancio dello Stato, è “un obiettivo non irraggiungibile: basta imporre per decreto a ogni ministro di tagliare un tot e arrangiarsi. Anche se non è questo il modo giusto per fare la spending review”.

Privatizzazioni attraverso Cdp? “Fumo negli occhi” – Capitolo privatizzazioni. Il ministro Pier Carlo Padoan, nonostante l’escalation di critiche dell’ala renziana del Pd, continua a ritenerle indispensabili per contenere un debito pubblico che solo se tutto va nel migliore dei modi l’anno prossimo dovrebbe calare dal 132,5% di quest’anno (cifra che incorpora l’utilizzo di 10 miliardi sui 20 stanziati per la ricapitalizzazione precauzionale delle banche) al 131% del pil. E il “migliore dei modi” comprende la capacità dello Stato di portare a casa ogni anno, dal 2017 al 2020, una cifra pari allo 0,3% del pil vendendo altri pezzi di gioielli di famiglia. Questo dopo che nel 2016 il governo Renzi è riuscito a ricavarne solo 1,6 miliardi. “Decisamente ottimistico, tanto più alla luce dell’opposizione di Renzi”, secondo Perotti. Per far decollare i ricavi, il Tesoro secondo Reuters sta studiando il trasferimento a Cassa depositi e prestiti delle sue quote nelle maggiori società partecipate, per un valore di “almeno 20 miliardi di euro”. Cdp finanzierebbe l’acquisizione emettendo azioni privilegiate che potrebbero essere cedute a investitori istituzionali, che riceverebbero un dividendo privilegiato. Un progetto che permetterebbe di ridurre il debito perché la Cassa che gestisce il risparmio postale è fuori dal perimetro della pubblica amministrazione nonostante il ministero dell’Economia possieda l’80% del capitale. Secondo il docente della Bocconi questa classificazione serve “solo per aggirare le regole” e il piano (almeno stando alle anticipazioni) è “fumo negli occhi dei contribuenti, per i quali nella sostanza la cessione di quote a Cdp non cambia nulla”.

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