Il ruolo delle donne nel contesto mafioso è un fenomeno ancora da studiare in ogni sua sfaccettatura. Donne sono le mogli dei boss che spesso sanno tutto, ascoltano i discorsi dei propri mariti che parlano ad altri mafiosi, custodiscono i segreti dell’organizzazione criminale e, come abbiamo visto in numerose operazioni, spesso sono anche complici, svolgendo un ruolo attivo (a differenza di un tempo) come tesoriere dell’organizzazione criminale. Ci sono poi le madri dei vecchi boss. Nei paesini le riconosci subito, sempre vestite di nero, con lo sguardo fisso a terra, rassegnate a vivere un’esistenza a metà. Queste donne sono anche sorelle, parenti, figlie dei mafiosi.

E figlia di un mafioso era Maria Rita Logiudice, come ha raccontato ieri Lucio Musolino sul Fatto Quotidiano, una bella ragazza di 25 anni, apparentemente felice nelle sue foto pubblicate su Facebook, con una vita normale. Gli amici, il fidanzato, i viaggi, l’università e qualche soldo che certamente in famiglia non mancava. Eppure ha scelto di farla finita, lanciandosi dal balcone della sua casa di Reggio Calabria. Ha deciso di lasciare questo mondo senza un biglietto di addio, senza dare spiegazioni a nessuno. Dai verbali depositati dai carabinieri e contenenti le dichiarazioni del fidanzato, gli amici e le persone vicine alla famiglia, sembrerebbe chiaro che il gesto di Maria Rita sia stato scatenato da quel peso troppo grande da sopportare. Quello di un cognome macchiato per sempre.

Suo padre, Giovanni, era in carcere come esponente della cosca Logiudice, mentre lo zio, Nino, è un collaboratore di giustizia. Quel cognome, nella città in riva allo Stretto, racconta di estorsioni, usura, donne sparite misteriosamente. Racconta di omicidi, vendette, sangue sparso per garantire l’onore della famiglia e mai l’amore. E forse, quella piccola donna che ha scelto lo studio come via di emancipazione, ha sentito troppo forte il peso di quel cognome. Non ha sopportato tutte le volte che il suo nome è stato accostato alla morte di qualcuno, alla violenza e al terrore. Quella di Maria Rita è una storia nuova per chi nasce, cresce e vive nelle famiglie criminali. È la storia di chi ha voluto interrompere per sempre quella catena che, suo malgrado, la teneva legata alla sua famiglia.

Le indagini faranno maggiore luce su questa vicenda ma colpiscono le parole del procuratore di Reggio Calabria, Federico Cafiero De Raho, il quale ha affermato che Maria Rita è “morta di isolamento” aprendo una finestra su una realtà che fino ad ora avevamo scarsamente considerato. “Se non siamo capaci di interagire con chi cerca un futuro alternativo alla ‘ndrangheta – ha affermato De Raho – abbiamo perso tutti quanti. Se noi diciamo ai ragazzi di cambiare vita e poi non siamo in grado di integrarli, di sostenerli, il cambiamento che tutti auspichiamo non arriverà mai”.

In queste parole è racchiuso il senso del gesto di Maria Rita. La sua voglia di cambiare che si scontra con una realtà in cui spesso questo cambiamento non è ancora possibile. Cosa avremmo fatto se la figlia di un potente boss ci avesse teso la mano chiedendoci amicizia? Avremmo parlato male di lei alle nostre spalle? L’avremmo fatta sentire inadeguata qualche volta? E davvero si sentiva libera? Il punto è che in questi anni in cui tutto è mafia e siamo perseguitati da eventi più o meno mafiosi, il ruolo delle vittime ci appare sempre più lontano.

Il contesto è cambiato e c’erano state già altre donne che ci avevano indicato una strada diversa, come la povera Maria Concetta Cacciola, e tante altre come lei. Ma non abbiamo saputo interpretare i loro messaggi, la loro voglia di fuggire da un mondo che non gli appartiene. Quanto può tormentare un cognome pesante come quello dei Logiudice per una ragazza che sogna un futuro lontano da dolore e morte, da carceri e omertà?

Questa storia ci insegna anche come spesso per molti di noi, nati e cresciuti in luoghi con una forte presenza mafiosa, lo studio rappresenti un’arma di riscatto che ci fa vedere la realtà con molta più lucidità e ci indica la strada da seguire. Meno efficace è la retorica che spesso accompagna eventi, convegni, manifestazioni che, come vedete, non portano a nulla. Perché è giusto parlare di mafia e parlarne ovunque se nel contempo si comprende la realtà che ci circonda e si agisce per tutelare le vittime, prima di raccontare le loro storie nei prossimi convegni. È vero, forse Maria Rita è morta di isolamento. Ognuno di noi può fare la sua parte affinché non accada mai più.

Articolo Precedente

Palermo, il presunto estorsore viene assolto: parti civili condannate a pagare le spese processuali

next
Articolo Successivo

“Cani senza padrone”, in libreria la storia della Stidda all’assalto di Cosa nostra

next