Dopo un periodo in cui sembrava che il nostro Paese volesse veramente considerare la tutela delle aree protette come uno dei propri tratti distintivi, arriva puntuale la smentita. Tutto come prima, anzi peggio di prima.

E’ in discussione in questi giorni nell’aula di Montecitorio una proposta di legge ovviamente bipartisan (proposta da Antonio D’Alì per Forza Italia-Pdl con relatore Enrico Borghi del Pd) che intende modificare la “vecchia” legge sui parchi e le aree protette: la n.394 del 1991. Tale norma, ricordiamolo, andò a colmare uno scandaloso vuoto legislativo, durato quasi mezzo secolo, in materia di protezione dell’ambiente e del paesaggio. Benché la legge 394 fosse tutt’altro che perfetta (e tutt’altro che perfetta ne è stata l’attuazione, visto che alcuni parchi non sono stati istituiti) rappresentò una pietra miliare nel campo della tutela ambientale ed allineò l’Italia agli altri Paesi europei. Consentì, tra le altre cose, di raggiungere la fatidica quota del 10% del territorio nazionale sottoposto a tutela.

Ora, come detto, c’è il drammatico rischio (ma forse sarebbe più corretto parlare di certezza) di distruggere tutto quanto di buono si è fatto in questi decenni e far tornare indietro l’Italia di almeno 30 anni. Il 23 marzo scorso si è conclusa la discussione alla Camera con il parere favorevole della Commissione.

Ma quali sono gli aspetti più deleteri della proposta di legge 4144, testo che riunisce ben cinque preesistenti proposte?

Innanzi tutto la concezione che i parchi debbono rendere economicamente: certo, se poi riescono a proteggere in qualche modo anche l’ambiente, tanto meglio. Ma non è questa la loro funzione principale. Addirittura, vengono previste delle compensazioni, a fronte delle quali nelle aree protette si potrà fare quasi di tutto, anche le operazioni più impattanti sull’ambiente, tipo trivellazioni ed estrazione di materiali.

Continuiamo. La gestione delle aree protette, secondo la proposta di legge, passerebbe quasi esclusivamente in mano alle forze politiche locali: estromesso il mondo scientifico, rimane una modesta rappresentanza di quello ambientalista, che deve tuttavia passare anch’esso attraverso l’approvazione degli enti locali. Qui lo dico e lo sottolineo: è criminogeno lasciare un parco nazionale in mano a poteri localistici. Per quanto riguarda il presidente dell’Ente che dovrà gestire ogni area protetta, sarà sufficiente la qualifica di “persona di comprovata esperienza nelle istituzioni o nelle professioni”. Che vuol dire tutto e niente: più probabile la seconda ipotesi, magari sarà un politico locale. Lo stesso direttore (ruolo fondamentale, soprattutto per quanto riguarda i rapporti con le popolazioni locali) verrà nominato a seguito di selezione pubblica. Peccato però che per partecipare alla selezione sarà sufficiente possedere una laurea in qualsiasi disciplina nonché “una comprovata esperienza di tipo gestionale”. Dei manager senza nessuna competenza naturalistica? Andiamo bene. Ma non è tutto: il direttore verrà infatti scelto nell’ambito di una terna, valutata da una Commissione costituita per due terzi dal Consiglio di Amministrazione dell’Ente medesimo e la sua nomina verrà effettuata dal Presidente. Il tutto, quindi, sarà deciso a livello locale, con tutte le pressioni e la tutela di interessi corporativistici e locali che questo può significare.

Che dire poi della gestione della fauna selvatica? Non è più previsto l’obbligo di applicare i cosiddetti “metodi ecologici” (catture, dissuasione, ecc.) per il loro controllo, il quale verrà demandato ai cacciatori. Con quale metodo questi intendano operare è poi del tutto prevedibile: piombo a volontà.

Sparisce anche la possibilità di riconoscere i siti Natura 2000 come aree protette, con conseguente drammatico e pericoloso allentamento dei vincoli su tali aree.

E poi ancora tante altre cose: dall’insufficiente impegno previsto per i parchi marini (che continueranno ad essere strutture esistenti pressoché solo sulla carta) alla possibilità di trasferire le sedi del Parco nazionale del Gran Paradiso (oggi localizzate a Torino ed Aosta) in comuni interni all’area protetta; dalla possibilità di esercitare la caccia nelle aree contigue a quelle protette alla mancanza di impegni precisi per la tutela della biodiversità del nostro Paese.

Il mondo ambientalista ha definito la norma in itinere “una riforma sbagliata, incapace di dare soluzioni ai problemi delle Aree protette, ma addirittura tale da avvicinare troppo sino a sovrapporre pericolosamente i portatori d’interesse con i soggetti preposti alla tutela, svilendo la missione primaria delle aree protette e mettendole in ulteriore sofferenza.”

In compenso, come evidenzia il presidente della Commissione Ambiente alla Camera Ermete Realacci (già presidente di Legambiente e attuale piddino), ci sono finalmente le quote rosa. E allora? Quale sarebbe il beneficio per i parchi?

Se il testo otterrà l’approvazione della Camera, come appare scontato, tornerà in Senato (dove è stato votato lo scorso 14 marzo nonostante errori clamorosi presenti nel testo che hanno costretto Realacci a chiedere “verifiche al ministro”, ministro che si è rifiutato di rispondere alle telecamere de Ilfattoquotidiano.it) per l’approvazione definitiva.

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