Nel 1778, la Reale Accademia Prussiana di Scienze e Lettere, sollecitata dallo stesso Federico II, bandiva un concorso per un saggio sulla questione, se torni utile al popolo essere ingannato: un tema le cui origini sono antiche, ma la cui presenza si rivela costante nel dibattito filosofico moderno e contemporaneo.

Fréderic de Castillon, premiato come vincitore del concorso, dapprima evocava un bel campionario dei criteri per stabilire l’inferiorità del popolo, abilmente ridefinito, in modo da coincidere con l’insieme degli inferiori: “Chiameremo dunque ‘popolo’, senza considerare il loro rango né i loro beni, tutti coloro che hanno ricevuto dalla natura uno spirito debole e ottuso; e anche tutti coloro che, dotati naturalmente di giudizio e intuizione, non ne fanno, o non ne sanno fare, alcun uso, perché ostacolati dall’educazione ricevuta o dalla pigrizia o dalle passioni; tutti coloro che coltivano i talenti più piacevoli e lasciano incolta la loro ragione; tutti coloro infine, che, ciechi come sono, non possono far a meno della guida di veggenti, e se si ostinano a rifiutarla, precipitano di abisso in abisso; insomma, tutti coloro per i quali sarebbe maggior bene essere guidati piuttosto che guidare, sebbene talvolta persistano nel farlo con irriducibile e funesta caparbietà”.

Quindi, di fronte alla domanda se possa tornare utile al popolo essere ingannato, proseguiva: “Rispondo arditamente di sì; purché chi è preposto alla guida dimentichi se stesso e inganni soltanto per condurre più facilmente a un determinato fine, e purché in questo fine consista la vera felicità di chi viene guidato… E come può essere proibito ingannare il popolo se lo si fa per meglio guidarlo verso il fine della sua felicità? Come per un bambino è utile inghiottire una medicina credendo che sia zucchero, perché non dovrebbe essere utile per il popolo accogliere per errore una disposizione benefica che sarebbe respinta se offerta nella sua nudità?”.

Nell’ottica del de Castillon, che non è molto diversa da quella di tanti odierni “signori delle tenebre”, i pericoli e gli acidi della ragione sarebbero da riservare, dunque, ai pochi, che prendono su di sé il peso e il sacrificio del destino altrui: il duro realismo, l’apparente cinismo, la spietatezza, la capacità di usar la menzogna e manipolare l’ignoranza, che ne derivano possono apparire immorali soltanto a chi non comprende come il principe-pastore guardi sempre alla meta, lontana ma decisiva, della salvezza di coloro che gli sono confidati.

Il realismo, per quanto concerne il principe, soggetto per la sua particolare posizione a cadere in ogni vizio, a restar preda dell’ambizione e dell’orgoglio, a ignorare la natura del popolo e i modi della sua felicità, ad abusare dell’inganno e del segreto, ingannato a sua volta da procaccianti e adulatori, induce tuttavia a porsi dalla parte del popolo, non perché questo popolo, di cui noi stessi siamo elementi, sia platonicamente composto di filosofi, ma perché si può lavorare allo scopo di diventare meno dissimili da un popolo di filosofi.

Il principio guida è dunque quello che il potere è conferito ed esercitato nell’interesse e per conto del popolo, deve essere controllato dal popolo, e per essere controllato dal popolo deve essere conosciuto dal popolo. Nello stesso tempo, però bisognerà tener conto che si tratta di un principio da applicarsi in una condizione storica difforme dall’ideale. Se il principio, in sé stesso, non ammette infatti eccezioni, può darsi che la sua applicazione concreta voglia qualche eccezione.

Finché gli uomini non saranno tutti e sempre filosofi, trattarli tutti e sempre come filosofi sarebbe cedere alla tentazione dell’utopismo. La segretezza che circonda il momento delle scelte di fondo, la segretezza con cui vengono adottate le deliberazioni di vertice ed in cui vengono mantenuti alcuni trattati, la segretezza dei giudizi sono incompatibili con la democrazia.

I processi, gli indirizzi, le decisioni del potere devono essere, insomma, sempre ben conosciuti nel loro insieme, nella dimensione interna e nella dimensione internazionale, e la pubblicità inerisce essenzialmente ai giudizi. Naturalmente, nella casa della luce, qualche zona di penombra e qualche provvisoria oscurità sono pure da tollerare, potendo provvisori e parziali segreti tutelare il popolo in via di sviluppo filosofico, e certi suoi gravi interessi, in attesa che ciascun cittadino abbia trovato la fermezza, la sicurezza, lo spirito di giustizia propri di un filosofo nella società dei filosofi.

Accade, per esempio, che qualche cittadino sia tanto poco filosofo da delinquere, e tanto poco filosofo da non collaborare con l’inquirente nella ricerca della verità; e che altri, forse anch’egli in ritardo sulla strada della filosofia, sia disposto a favorirlo contro la giustizia.

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