L’ubriaco Tim Finnegan cade da una scala, batte la testa e muore. Durante la tragicomica veglia, racconta la ballata popolare, mentre intorno al feretro si avvicendano in un carnascialesco pellegrinaggio mortuario i compagni di una vita, qualcuno gli butta in faccia del whiskey e quello si risveglia. Il suo alter ego joyciano si addormenta dopo aver sbevazzato tutto il giorno e fa sogni inquietanti, svolazzi onirici erotici e incubi incestuosi, e si ridesta (forse) in un racconto che rimane sospeso in una perpetua veglia tra gli orrori del sonno e quelli della realtà. Un frullatore o calderone letterario in cui l’autore mago alchimista lascia cadere 40 lingue diverse, cultura popolare e letteratura alta, testi sacri e linguaggio da trivio, e dal cui impasto nasce un grande delirio comico, una grottesca storia dell’umanità (e del “chaosmos”, il caos del cosmo nel quale l’autore prova a mettere ordine) alla cui base rivive il mito della Fenice e la rinascita continua dalla morte alla vita. Finnegans Wake è prima di tutto un’impresa. Tale fu per James Joyce che per dispiegarla su carta impiegò gli ultimi anni di vita, lo è per chi legge e lo è stata anche per chi come Enrico Terrinoni e Fabio Pedone l’impresa l’ha rinnovata traducendo l’opera. E, perché no, riscrivendola.

Finnegans Wake non è materia ad uso esclusivo degli adepti del culto di James Joyce – spiega Terrinoni, ordinario di letteratura inglese all’Università per stranieri di Perugia, che con il collega ha curato per Mondadori la traduzione del primo e del secondo capitolo del terzo libro – né un libro che va lasciato nel chiuso delle biblioteche. Nel Wake Joyce ha creato una nuova lingua, mescolando decine di idiomi e coniando termini che racchiudono significati diversi. Per questo è un’opera che chiama direttamente in causa chi legge, che combatte contro la fissità della parola e mette il lettore al centro della triade autore-opera-lettore, perché quest’ultimo è chiamato a dare la sua interpretazione di ciò che sta leggendo. In pratica il lettore diventa co-creatore dell’opera letteraria. Quindi è un esempio di democrazia, di opera democratica“.

“Giusto, è un libro contro il linguaggio imposto – prosegue il ragionamento Pedone, traduttore e giornalista, mentre si chiacchiera in una libreria del centro di Milano – che destruttura il linguaggio e ti toglie dalla testa il già pensato, perché mostra come in una singola parola possano essere contenuti significati molteplici e insoliti, che mai prima avremmo pensato di poter accostare a quella serie di suoni. Ne viene fuori un libro pieno di equivoci linguistici, come fosse stato scritto con gli errori del correttore automatico del cellulare. Ed è così che lo scrittore crea l’emancipazione linguistica, ci libera dal primo senso che di una parola ci viene insegnato”. Perché se, come si suol dire, tradurre equivale a tradire, nel Wake equivale anche a creare nuovi significati, ma anche a creare di nuovo la stessa opera, e quindi a ricreare, anche nel senso di “ri-creazione”, momento in cui ci si diverte e si ride.

Succede allora che “laughtears” abbia il suono di “laughters“, risate, ma contenga anche il termine “tears”, lacrime e “incarni il detto bruniano (nel senso di Giordano Bruno, ndr) in tristitia hilaris, in hilaritate tristis“, si legge nella prefazione firmata da Terrinoni. Che argomenta: “Sì, perché la lingua è qualcosa che viene rielaborato e reinventato a ogni secondo. George Bush non sapeva pronunciare bene la parola “nuclear” e diceva “nucular” come se il termine fosse formato da “nuke” e “ocular”. Pensate che bello se potessimo guardare con i nostri occhi dentro l’atomo“, ride. “Quella inventata da Joyce è una lingua del futuro – riprende Pedone – che dobbiamo ancora imparare. Come scrive Richard Ellmann nella biografia di Joyce pubblicata nel 1959, ‘dobbiamo ancora apprendere a essere contemporanei di Joyce'”.

Che inventa la sua lingua nuova a partire da un’antica ballata irlandese, “Finnegan’s Wake” appunto, cui l’autore di Ulysses fa cadere l’accento mutuandone il titolo. Così che “La veglia di Finnegan” o meglio “La veglia per Finnegan”, o secondo alcuni “La veglia a Finnegan”, diventa una moltitudine di cose nuove e diverse. Per questo per tradurlo ci sono voluti  “tre anni lavorando 4 o 5 ore al giorno – spiega Pedone, che ha tradotto scrittori fuori dalle piste solitamente battute e linguisticamente provocatori come il National Book Award 2010 Jaimy Gordon – abbiamo lavorato in maniera continua e simbiotica, scegliendo la traduzione che faceva ridere, che risultava più comica, nel senso serio del termine”. Riallacciando dopo alcuni anni il filo interrotto dell’opera di Luigi Schenoni, che per Mondadori aveva tradotto i primi due libri.

Seriamente comica era già la materia, tanto che il “funeral” del protagonista Humphrey Chimpden Earwicker nelle pagine del Wake diventa più volte “funforall” (divertimento per tutti), in parallelo con l’ultimo verso del ritornello della ballata che recita “Lots of fun at Finnegan’s wake” (ci si diverte parecchio alla veglia per Finnegan). E racconta di “Tim Finnegan rising from the bed“, riecheggiando il Cristo risorto dai morti, “rising from the dead“. Con il tema della rinascita che permea tutto il libro: “Finnegans, parola nella quale si può leggere anche ‘fin negans‘, ovvero colui che nega la fine, in questo caso la propria morte, e ‘wake’, risveglio – continua Terrinoni, autore dell’ultima traduzione realizzata in italiano dell’Ulisse, per Newton Compton nel 2012-  è un invito che Joyce rivolge agli irlandesi a negare la loro fine, a risorgere, a riprendersi ciò che gli inglesi gli avevano tolto: l’identità”. Vestendo quindi i panni non solo dell’emancipatore linguistico, ma anche dell’emancipatore politico.

Joyce preconizzatore visionario di una “Irexit” della sua terra dalla sfera d’influenza britannica? Precursore e capopolo ante litteram dei repubblicani irlandesi del Sinn Fein che chiedono un referendum per la riunificazione dell’Irlanda, poche ore dopo la richiesta avanzata dalla Scozia per una nuova consultazione sull’indipendenza da Londra? Joyce profeta dei nazionalismi contemporanei? “Oggi il contesto politico ci porta a dare alla parola una accezione negativa – argomenta il docente – invece Finnegans Wake è sì un inno al nazionalismo, ma nel senso positivo del termine. Il libro è anche questo, un invito rivolto al popolo irlandese a risvegliarsi, ribellarsi e riprendersi la propria dignità dalla dominazione inglese, in cui l’imperativo Wake diventa inno e simbolo”.

Ed è la stessa vita di Joyce a racchiudere il superamento del nazionalismo negativamente inteso e della stessa identità nazionale. “Perché il giovane James è un internazionalista – continua Pedone – uno che spezza le catene che lo legano alla sua patria e va via dall’Irlanda a 22 anni, rifiutando la religione cattolica e la sua morale, e sceglie quel caos linguistico che è Trieste, città nel cuore dell’Europa. Sulla pagina crea il suo cosmopolitismo letterario, nell’opera ci sono 40 lingue, con continui passaggi da un idioma all’altro in una sola parola. Joyce odia i nazionalismi come noi li stiamo conoscendo, ma ha a cuore la rinascita di un popolo, il suo, cui è stata tolta l’identità”.

“Perché con Finnegans Wake Joyce intavola un discorso sulla Storia e sulla storia del suo Paese sottomesso dagli inglesi – conclude Terrinoni – nel quale prende l’inglese, il linguaggio imposto, gli torce il collo e in estremo spregio dei dominatori lo riscrive per tirare fuori dei giochi letterari che facciano ridere. Una vendetta che compie con il sorriso sulle labbra. Come diceva Bobby Sands, simbolo tragico negli anni ’70 della resistenza dei cattolici nordirlandesi alla presenza britannica sull’isola: ‘La nostra vendetta sarà il sorriso sui volti dei nostri bambini‘”.

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