Parlando dal punto di vista europeo, e solo europeo, senza tenere conto di chi ha il vantaggio nei sondaggi e/o nella legge elettorale che è e che sarà, l’Italia perde un giro – europeo – se non vota quest’anno, allineandosi a Francia e Germania.

Perché questo, per l’Unione europea, è un anno di transizione e di preparazione: le decisioni non saranno prese prima dell’autunno/inverno 2017/’18, indipendentemente dal fiume di parole che il 60° anniversario della firma a Roma dei Trattati istitutivi delle allora Comunità europee farà dire e versare, messaggi più o meno europeisti, appelli al rilancio dell’Ue e dichiarazioni genericamente zeppe di buoni propositi.

La Brexit e Trump sono state due mazzate: per il processo d’integrazione e per la credibilità di un progetto d’organizzazione regionale come frangiflutti della globalizzazione. I verdetti del 4 dicembre sono stati contraddittori, nell’ottica europea, ma più positivi che negativi: la vittoria in Austria del verde europeista Alexander Van der Bellen sullo xenofobo euro-scettico Norbert Hoefer è stato un punto a favore dell’Unione; mentre la vittoria in Italia del No al referendum costituzionale si basava in larga parte sul concorso di forze euro-critiche ed euro-scettiche, ma anche la campagna per il Sì aveva assunto coloriture euro-scettiche – e alla vittoria del No hanno anche contribuito euro-responsabili convinti che una cattiva riforma non avrebbe fatto l’Italia più europea, ma solo peggiore.

Ora, quest’anno si vota in Olanda, domani, in Francia, tra aprile e maggio, e in Germania a settembre. Quali che siano i risultati, e a meno di un filotto degli euro-scettici anti-Ue ed anti-euro che sarebbe un verdetto senza appello contro l’integrazione, in autunno tutti i Grandi dell’Unione, e tutti i Paesi fondatori, saranno pronti ad affrontare una riflessione a medio/lungo termine e un negoziato sul futuro del progetto europeo. Tutti tranne l’Italia, impantanata nella sua perenne campagna elettorale e incapace di uscire dal contingente e dal breve termine. E che, dunque, affronterà pensando ad altro un negoziato decisivo per il suo futuro ed alle cui conclusioni aderirà per forza d’inerzia.

Con il voto alle spalle, invece, l’Italia potrebbe essere protagonista e dare un maggiore spinta a forgiare il futuro proprio ed europeo.

L’indirizzo del negoziato dipende da troppe variabili non ancora note: l’esito delle elezioni, in primo luogo; e gli sviluppi della trattativa sulla Brexit, il ritmo di crescita dell’economia (e dell’occupazione) e l’andamento della gestione dei flussi migratori. Anche per questo, la dichiarazione che sarà pubblicata a Roma dai leader dei Paesi dell’Ue, su cui s’allunga dalla scorsa settimana l’ombra del dissenso polacco, sarà molto generica, dovendosi poi riempire di contenuti a ciclo elettorale concluso. E anche per questo documenti e risoluzioni che vengono annunciati da movimenti europeisti, centri studi, forze politiche hanno un gusto d’idealismo più che di concretezza.

Solo a Roma, le giornate del 23 e 24 sono segnate da una selva d’appuntamenti. A fare da prologo, è stata la presentazione, a Roma, di un’utile volume curato da Andrea Maresi e Lucia D’Ambrosi, ‘Dal Comunicare al fare l’Europa’. Il premier Gentiloni auspica che l’anniversario romano serva a rompere il clima negativo creato dalla Brexit (o che della Brexit è stato presupposto). Sandro Gozi, sottosegretario agli Affari europei, afferma che “rimanere nello status quo non è avviare la disgregazione, è proseguire nella disgregazione”. Lui però crede che l’Ue sia stata risvegliata dal fragore del nuovo disordine mondiale suscitato dalla Brexit e da Trump: dopo essere passata in quarant’anni dalla Generazione Auschwitz alla Generazione Erasmus, deve ora darsi nuovi obiettivi, come l’Unione sociale e l’Europa della Difesa.

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Temi che ritorneranno, nei prossimi dieci giorni, in decine di appuntamenti romani accademici, mediatici, politici, istituzionali, fino a culminare il 24 in una maratona di eventi nel segno, fra l’altro, di sigle europee come la Sezione italiana del Consiglio dei Comuni e delle Regioni d’Europa (Aiccre), il Consiglio italiano del movimento europeo (Cime) e il movimento federalista europeo (Mfe). Il 25 sarà Vertice: né rinascita né funerale, troppo presto per l’una e per l’altro. L’Italia, però, rischia di non trovarsi in prima fila, al momento giusto.

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