“Amici che state per raggiungere la Libia per andare in Europa. Fate molta attenzione, hanno cominciato a uccidere e massacrare senza pietà tutti i neri e i migranti. Tornate indietro, rischiate di essere uccisi come animali”. A un mese dagli accordi tra il governo italiano e quello libico di unità nazionale di Fayez al Sarraj, siglati per ridurre il flusso di migranti verso l’Europa, sui canali di comunicazione utilizzati dai profughi in viaggio, si moltiplicano messaggi come questo, accompagnati da immagini e video virali che documentano torture e fucilazioni. Non è semplice risalire alla reale origine delle immagini messe in circolazione, e in alcuni casi si tratta di immagini drammatiche provenienti da altri scenari di conflitto. Nei fatti, però, alcuni di questi testimoniano la situazione di grave instabilità in Libia, dove il “governo d’intesa nazionale” di Fayez al Sarraj voluto dall’Onu e dall’Unione Europea fatica a governare a Tripoli, mentre si rafforza l’opposizione di Khalifa Haftar sostenuto da Egitto e Russia a Tobruk. Se nel 2016 la Libia si è confermata la via preferenziale per raggiungere l’Europa, dopo la chiusura della rotta balcanica, nei primi tre mesi del 2017 l’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni denuncia che il numero di migranti morti mentre tentavano di raggiungere l’Europa è pari a 521, un centinaio in più delle vittime nello stesso periodo lo scorso anno.

Questi elementi moltiplicano le pressioni, ufficiali e non, per disincentivare i cosiddetti “viaggi della speranza”. Non solo il numero di morti, a crescere esponenzialmente in questi mesi è anche il prezzo da pagare ai trafficanti e alle organizzazioni criminali che gestiscono il viaggio dei migranti tra torture, stupri ed esecuzioni documentate con dovizia di particolari nei report dell’Osservatorio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati. Sul modello dell’accordo di riammissione siglato lo scorso anno con la Turchia, la Commissione europea sembra voler accelerare il processo di esternalizzazione delle frontiere avviato nel 2007 a Rabat, ovvero il subappalto della gestione dei confini a paesi terzi, in questo caso la Libia.

Non essendoci le condizioni per pattugliare le acque libiche con navi europee, Bruxelles porta avanti la linea di affidare il contrasto dell’immigrazione irregolare alla Guardia costiera di Tripoli, addestrata per questo dalla Marina Militare italiana nell’ambito della prima fase dell’operazione “Sophia” dello scorso novembre. Oltre 400 organizzazioni della società civile europee ed africane hanno espresso a tal proposito fortissime preoccupazioni in una lettera aperta indirizzata all’Unione europea, in cui sottolineano come “la nuova strategia europea non porterà né ad una riduzione di violazioni di diritti umani, né alla fine delle pratiche dei trafficanti”.

Per finanziare queste operazione e fornire i mezzi necessari a portarla avanti nel 2017, l’Europa è pronta a sbloccare 200 milioni di euro dal “Fondo fiduciario per l’Africa”. Lo scopo di un blocco navale sarebbe quello di ridurre il numero dei morti in mare (3.700 nel 2015, 5.000 nel 2016 secondo l’Unhcr), ma resterebbe il problema delle drammatiche condizioni in cui versano i migranti che si transitano dalla Libia e finiscono nei centri di detenzione che l’ambasciata tedesca in Niger ha definito “luoghi infernali come lager”, dove si rischia di morire ogni giorno per far spazio a nuovi migranti da ricattare e sui quali speculare. A questo proposito, il piano europeo è quello di stanziare finanziamenti “volti a favorire il ritorno in patria dei migranti rimasti bloccati in Libia” e “migliorarne le condizioni di vita nei centri di trattenimento”. Operazioni di complessa realizzazione, considerato che la maggior parte dei centri è fuori dalle aree controllate da Fayez al Sarraj, ad oggi l’unico interlocutore dell’Unione europea.

Se da una parte dunque si firmano accordi con i paesi di origine per bloccare l’immigrazione irregolare, dall’altra la stessa Unione europea denuncia le condizioni in cui vengono trattenuti i migranti nei centri di detenzione libici, tra “ricatti, abusi e torture”, dove le persone vengono “comprate e vendute”. Per questo, diversi paesi europei promuovono campagne di comunicazione per disincentivare chi decide di partire.

Nel caso dell’Italia, il Governo ha investito un milione e mezzo di euro per la campagna “Aware Migrants”, diffusa in 15 paesi africani e realizzata in collaborazione con l’Oim. Il messaggio, lanciato a partire da agosto, è lo stesso che rimbalza con più efficacia e autonomamente tra i migranti in queste settimane: “Non intraprendete questo viaggio, è pericoloso”.

La campagna non prende in considerazione le cause profonde che spingono i migranti a partire (il perdurare delle condizioni di povertà, le disuguaglianze e i conflitti), ma si limita a informare chi viaggia dei pericoli che incontrerà. Si prosegue dunque nel solco della linea tracciata da Bruxelles, che è quella di modulare l’erogazione di “fondi per lo sviluppo” (per un totale di due miliardi di euro) ai singoli paesi africani in base alla rispettiva capacità di contenere le migrazioni e collaborare nei rimpatri.

Non mancano le critiche alla strategia della Commissione europea: “Il tentativo di esternalizzare le nostre frontiere non risolverà il problema – denuncia la deputata europea Elly Schlein, del gruppo socialisti e democratici – ma lo sposterà solo un po’ più lontano dai nostri occhi e dalla nostra capacità di agire e di aiutare”. “Non si può far finta di non vedere che chiudendo le porte aumenteranno le sofferenze e i pericoli per i profughi in paesi come Libia, Ciad e Niger” denuncia Abba Mussie Zerai, sacerdote eritreo e fondatore dell’agenzia Habeshia, che aggiunge che questi fondi “per lo sviluppo” vengono affidati agli stessi governi da cui parte della popolazione scappa, contribuendo indirettamente ad aggravare la repressione nei confronti delle minoranze e a rafforzare regimi opachi come quello di Omar al-Bashir in Sudan, ricercato per crimini di guerra e contro l’umanità dal Tribunale penale internazionale. In effetti, l’Europa non sembra avere strumenti di controllo significativi per garantire il buon utilizzo dei fondi da parte dei paesi terzi a cui vengono erogati.

Tuttavia, se nei prossimi mesi il governo di Fayez al Sarraj dovesse rimanere al potere e dovesse funzionare il memorandum d’intesa con l’Italia, che prevede il trattenimento in Libia dei migranti, per i profughi sarà sempre più difficile, pericoloso e costoso, arrivare (vivi) in Europa. Consapevoli di questo il Commissario all’immigrazione Dimitri Avramopoulos e l’Alto rappresentante dell’Unione per gli esteri Federica Mogherini hanno suggerito agli stati membri, “una volta consolidata la capacità dei paesi partner di controllare le frontiere” e “definite le intese per agevolare i rimpatri degli irregolari”, di aprire “canali che permettano la migrazione legale e in condizioni di sicurezza” nei Paesi europei, che però rimarranno sempre liberi di determinare singolarmente il numero di migranti a cui riconoscere l’ingresso regolare. Insomma la promessa di una maggiore elasticità domani, forse, in cambio della massima collaborazione nel sigillare le frontiere fin da subito.

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