Cinema

Omicidio all’italiana, perché il nuovo film di Maccio Capatonda è imperdibile

A metà strada tra esasperato surrealismo e anarchico dadaismo Omicidio all’italiana molla ogni ormeggio di verosimiglianza per abbandonarsi totalmente dentro ad una voragine comica senza fine che travolge ogni comportamento ignorante e volgare della plebe, la maniacale e acritica ipnosi per il piccolo schermo (sì ancora la mitologica ‘televisiun’), qualunque appiglio ad una narrazione realistica in senso stretto

di Davide Turrini

Omicidio all’italiana di Maccio Capatonda è un film imperdibile. E la nostra è una vera battaglia di retroguardia. Folgorati sulla via di Maccio “cineasta” solo nel 2017 ci cospargiamo il capo di cenere rispetto all’italica commedia. Perché in questo secondo film da regista Marcello Macchia sfiora il sublime. Satireggiare e perfino sfiorare l’offesa gratuita dà più gusto quando il bersaglio è forte e con le spalle grosse, e non il contrario. Per questo Omicidio all’italiana si distingue dall’esordio penoso di Italiano Medio. Se là si prendeva di mira una tendenza culturale modello ambientalista/salutista/vegana, socialmente minoritaria, defilata, ben poco aggressiva o invadente col proprio credo; qua si sfotte pesantemente la smania incontrollabile di massa, anagraficamente e culturalmente trasversale, del morboso voyeurismo da cronaca nera. Attenzione, lo sapete già, almeno chi lo conosce dalla tv e dal web. Maccio se recita una battuta va presa in modo letterale. Quando il sindaco (lo stesso Capatonda) dello sgangherato borghetto di Acitrullo urla alla banda musicale di paese che per caricare sul web il video di promozione turistica del borgo bisogna avere la “banda larga”, ecco che nell’inquadratura successiva i componenti della banda che stanno suonando si “allargano”, cioè si distanziano fisicamente l’uno dall’altro, mentre prima erano come stretti dentro l’angusta inquadratura.

L’umorismo di Capatonda è questo. Non c’è un doppiofondo, una doppia lettura, un sottotesto (un esempio è nel trailer con la geniale gag alla Totò in cui il sindaco spiega al fratello la differenze tra “braccio e mente criminale”). Il punto è che in Omicidio all’italiana la disfida comica è come moltiplicata per un milione e mantiene una concentrazione, una puntualità, di fronte al bersaglio grosso, per ogni singolo minuto di film da fare spavento. Tanto per capirci nel piccolo paesello rurale di Acitrullo, un Abruzzo/Molise tratteggiato con una gotica asprezza di sguardo, praticamente tutti i giovani se ne sono andati e sono rimasti soltanto anziani (età media 68 anni). Vana l’iperattività “istituzionale” del sindaco Piero Peluria e del fratello Marino nel farli rimanere. Fino a quando i due si intrufolano striscianti nella ricca magione della contessa Ugalda Martirio Incazzati, prima insultata in piazza, e nel chiederle scusa assistono alla sua improvvisa morte per soffocamento (non è spoiler perché siamo al decimo minuto e perché succede molto altro in un’ora e venti di film restante). A Peluria, che è appunto letteralmente pieno di pelo che gli esce perfino dalle maniche della camicia, viene allora un’idea.

Perché non inscenare un vero omicidio per far così accendere gli inarrestabili riflettori nazionali della trasmissione tv “Chi l’acciso?” ad Acitrullo? I due ricostruiscono rocambolescamente l’accoltellamento sul corpo della contessa, episodio di nera che oltre alle masse di troupe tv, richiamerà anche un commissario di polizia che con i suoi colleghi si genufletterà alla conduttrice Donatella Spruzzone lasciando le indagini agli autori del programma, nonché una processione infinita di turisti del macabro che affolleranno il paesino per i selfie con la morta in una continua rincorsa con i celebri Cogne, Avetrana e Novi Ligure.

A metà strada tra esasperato surrealismo e anarchico dadaismo Omicidio all’italiana molla ogni ormeggio di verosimiglianza per abbandonarsi totalmente dentro ad una voragine comica senza fine che travolge ogni comportamento ignorante e volgare della plebe, la maniacale e acritica ipnosi per il piccolo schermo (sì ancora la mitologica ‘televisiun’), qualunque appiglio ad una narrazione realistica in senso stretto. Basta vedere la lunga sequenza della fuga da Acitrullo di Piero e del fratello per andare “a Campobasso”: una gag dietro l’altra che non lascia un attimo di respiro, tra giochi di parole, nonsense, la ripresa di uno sketch iniziale (quello con Frassica) che gioca agilmente all’infinito sull’idea delle divisione a metà di anime e oggetti, il lampo hollywoodiano con il grande magazzino terra promessa e cameriera coi pattini, e il ritorno finale con l’abbordaggio delle ragazze da parte dello sgarrupato Pietro: “Mio fratello è un onesto allevatore, aldo, moro”.

Infine l’umorismo di Capatonda merita un confronto con l’elaborazione comica minima del duo campione d’incassi Zalone/Nunziante. Là dove il comico pugliese premeva per l’accentramento narcisistico e cannibale dell’intero testo sul suo invadente e autocompiaciuto personaggio in scena, qua la regia di Capatonda scava tematicamente in profondità ben oltre l’ingrossamento parossistico dei luoghi comuni zaloniani, armonizzando la messa in scena con una redistribuzione equilibrata di ruoli e battute che mettono in risalto comprimari come il malinconico e impagabile Herbert Ballerina (Luigi Luciano), e costruendo set dal vago sentore di un’illusoria amatorialità produttiva. Straordinari sia il bordone narrativo sui Viaggi Sventura con i siparietti che sfottono la cafonaggine estetica e linguistica dei fan del fenomeno Gomorra; sia la statua della morta ammazzata in bronzo piena di coltelli piazzata nel centro di Acitrullo, scultura che poteva benissimo essere stata creata da Maurizio Cattelan.

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