“Conservarli seppur introducendo qualche correttivo”. Ma anche: “Riportarli allo spirito originario”. O meglio: “Rimettiamoci mano per evitare abusi”. E quindi? “Le aziende possono utilizzarli, certo, ma senza fare furbate”. Anzi, no: “Li usino soltanto le famiglie”. Tra capriole ed equilibrismi, dichiarazioni d’intenti contrastanti e tentennamenti, il Poletti-pensiero sui voucher si arricchisce di una nuova sfumatura. L’ultima esternazione del ministro del Lavoro, fresca di giornata, recita: “Io credo che i voucher vadano modificati lasciandoli tendenzialmente per le famiglie, per i piccoli lavori, e non per le imprese, che hanno già i contratti di lavoro”. L’affermazione di Giuliano Poletti di per sé sembrerebbe esaustiva, ma si tratta dell’ennesimo cambio di rotta sui buoni del lavoro da 10 euro diventati la frontiera più estrema del precariato. Con l’ultima giravolta l’ex presidente di Legacoop si allinea di fatto con l’orientamento della commissione Lavoro della Camera, che sta lavorando a un testo unificato di riforma dei voucher e il cui presidente Cesare Damiano proprio mercoledì ha preannunciato che “è stata fortemente sostenuta la tesi di prevedere l’uso esclusivamente per le famiglie e non per le imprese e la pa”. Ma fino a poco tempo fa (prima che la Consulta desse il via libera al referendum sull’abolizione dei buoni) Poletti non era certo di questa opinione.

Prima la sottovalutazione del rischio, poi il tentativo di ridimensionare il problema – All’inizio sembravano non essere affatto una grana da risolvere. Nei primi mesi d’incarico come ministro del Lavoro del governo Renzi, nel 2014, Giuliano Poletti il problema dei voucher semplicemente non se lo pone. Se ne parla sempre di più, soprattutto in rete: emergono le prime denunce di abusi, ma negli uffici del ministero di Via Veneto si continua a fare spallucce. Il momento a partire dal quale non si può più far finta di niente ha una data precisa: il 29 maggio 2015. Quando, cioè, a denunciare i voucher come “la nuova frontiera del precariato” è Tito Boeri in persona, ovvero il presidente dell’Inps scelto da Matteo Renzi. Il quale, da Palazzo Chigi, prova a cavarsela con la più vecchia delle giustificazioni: “Quello dei buoni lavoro è uno strumento che abbiamo ereditato dai precedenti governi”. Il premier e il suo ministro del Lavoro rivendicano che al loro esecutivo non va attribuita alcuna volontà di estenderne l’utilizzo. Cosa che Poletti ripete ancora oggi: “Non abbiamo fatto nulla per ampliare e agevolare i voucher”. E forse dev’essersi distratto, visto che nel Jobs Act che lo stesso Poletti ha tante volte incensato, è stato introdotto l’innalzamento del tetto che ogni lavoratore può percepire in voucher nell’arco di un anno: da 5mila a 7mila euro.

La battaglia ai tempi del Jobs Act. M5S: “Poletti si oppose a qualsiasi limitazione dell’uso dei voucher” – La possibilità d’intervenire sui voucher, limitandone l’uso e riducendo i rischi di abuso, c’era già stata nell’autunno del 2014, ai tempi della discussione in Parlamento della delega sul Jobs Act. Ma Poletti non ne volle sapere: del resto, si era ancora in una fase in cui dei buoni lavoro erano in pochi a parlare. Sia in Commissione sia in Aula, le opposizioni (SelCinque Stelle) evidenziarono i rischi legati alla scelta di proseguire sulla strada della liberalizzazione dei voucher. Ci furono proposte volte a restringere i settori d’utilizzo dei buoni, vietandoli alle imprese e alla pubblica amministrazione, e a tornare al perimetro esclusivo delle “prestazioni meramente occasionali”. Ricorda il deputato pentastellato Claudio Cominardi, che in quella discussione fu relatore di minoranza: “Facemmo le barricate, e da Poletti ricevemmo solo dei No. A noi era chiaro il pericolo della precarizzazione estrema connessa al lavoro accessorio, ma il governo preferì marciare a tappe forzate senza ascoltare alcuna critica”.

La tracciabilità non funziona. Poletti: “Le imprese? Possono usare i voucher, ma impediremo le furbate” – Dopo mesi di sottovalutazione del rischio, finalmente nella primavera 2016 anche Poletti ammette che quello dei voucher è un problema da affrontare. Pur ribadendo i meriti di questo strumento: “Non possiamo buttare il bambino con l’acqua sporca: i voucher – dichiara – hanno aiutato l’emersione del lavoro nero. Ma dobbiamo contrastare chi li usa male”. Come? “Rendendoli pienamente tracciabili: solo così riusciremo ad evitare le furbate delle aziende”, afferma convinto. Però quando, nel maggio scorso, Sel lo incalza su questo argomento alla Camera, nel corso del Question time il ministro si limita a parlare di “criticità” in modo così timido che alcuni giornali titolano: “Poletti difende i voucher”. Lui precisa, dice di volerli riformare, e s‘impegna a farlo nel decreto correttivo del Jobs Act che viene approvato a settembre 2016. Poletti esulta: “Abbiamo deciso di introdurre la tracciabilità piena per contrastare con ancora maggior forza il loro utilizzo irregolare”. Un successo, secondo il ministro, che infatti esalta questa modifica in ogni circostanza in cui, d’allora in poi, si ritrova a parlare dei voucher. I sindacati protestano: “La misura non funziona perché i controlli sono troppo scarsi”. Ma Poletti non ci sta: “Noi abbiamo introdotto la legge, i controlli seguiranno”. E invece non è così, almeno stando a quanto affermano i tecnici dello stesso ministero del Lavoro a ilfattoquotidiano.it nel dicembre scorso: “Impossibile effettuare tutti i controlli necessari”.

Gaffe e rettifiche: “Referendum per abolirli? Meglio anticipare le elezioni per evitarlo. Anzi no” – Cambia il governo, ma Poletti resta al suo posto. E conserva la sua tendenza a contraddirsi da solo. Quando la Cgil presenta i 4 referendum sul Jobs Act, proponendo – tra l’altro – l’abolizione dei voucher, il ministro del Lavoro del nuovo esecutivo Gentiloni afferma: “Se si vota prima del referendum il problema non si pone. Diventa ovvio che per legge l’eventuale referendum sul Jobs Act sarebbe rinviato. Insomma, meglio aggirare lo spauracchio accelerando la fine della legislatura: sembra questo il suggerimento di Poletti. Sembra ma non è, perché passa appena qualche ora e Poletti si corregge, spiegando ai colleghi del governo appena insediatosi che quella dichiarazione è stata una semplice “scivolata”. Un anticipo di ciò che avverrà di lì a pochi giorni con la questione dei giovani emigrati all’estero in cerca di lavoro: prima la figuraccia, poi la rettifica e l’ammissione di colpa.

Nuovo cambio di strategia e giravolta: “Le imprese? Hanno i contratti di lavoro. Per loro niente voucher” – Intanto vengono diffusi i dati ufficiali sull’esplosione dei voucher: nel 2016 ne sono stati utilizzati 134 milioni. Cifre di fronte alle quali si pretende un pronunciamento definitivo da parte del ministro del Lavoro. Poletti allora prima – è la fine di dicembre – cerca di prendere tempo (“Abbiamo introdotto la tracciabilità, e dal prossimo mese vedremo l’effetto e in caso interverremo di nuovo”); poi, a inizio gennaio, dichiara “aperta la riflessione sull’utilizzo dei voucher” e infine, il 30 dello stesso mese, annuncia: “Pensiamo di intervenire con modifiche normative per andare nello spirito originario dei voucher, il lavoro accessorio e occasionale”. Ovvero, in sostanza, le stesse modifiche che invocano da anni sia i detrattori del Jobs Act sia Damiano e altri esponenti del Pd nelle Commissioni Lavoro di Camera e Senato. Ora, infine, il ribaltamento totale delle tesi fin qui sostenute: ovvero, spiega il ministro, bisogna vietare i voucher alle imprese e lasciarli solo alle famiglie. Ma come? Non si era detto che le aziende potevano utilizzarli, pur senza furbate, e che le misure di controllo messe in campo bastavano ad evitare gli abusi? Misteri del Poletti-pensiero, che più che compreso va evidentemente interpretato.

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