Gli spettacoli di Emma Dante sono sempre stati, fin da quel suo primo vagito “mPalermu”, coreografie orchestrate di movimenti, segni e gesti. Danze coordinate dove fili differenti tessono una grande tela colorata. Il singolo al servizio della moltitudine (il ricordo va a Rem&Cap), il cantore che si sposta dalla massa e si prende la scena in un elastico, dal collettivo all’individuale, che molto somiglia ad uno zoom cinematografico che prima ci mostra l’accatastarsi dei corpi e poi ci fa immergere lo sguardo sottopelle, tra le dinamiche e gli angoli di queste braccia e bocche.

La moltiplicazione diventa dunque preparazione alla scena successiva con pochi elementi: dal generale al particolare. Lo stilema del succitato coro corposo in “mPalermu” aveva lasciato spazio a ideazioni sceniche più scarne, minimali, tratteggiate da pochi personaggi in spazi claustrofobici, “Carnezzeria”, “Vita mia”, “Mishelle di Sant’Oliva”, “Il festino”, prima di riprendere con forza in “Cani di bancata” e poi “Le pulle” e ancora “Le sorelle Macaluso” fino ad arrivare a questi due ultimi “Odissea A/R” (visto al Teatro Manzoni di Pistoia) e il debutto di “Bestie di scena” (prod. Piccolo di Milano), altre due opere dove si lavora per accumulo, per accrescimento, per poi scarnificare.

Una versione pop, leggera e intrigante, ma anche semplicistica, dell’“Odissea” (qui gli attori, tutti provenienti dalla scuola del Teatro Biondo del capoluogo siciliano, sono addirittura ventitré) con grandi intrecci cromatici, svestimenti e rivestimenti in questo ring dove si contrappongono i generi: le donne ancelle non emancipate e i volgari violenti Proci, quasi uno scontro a colpi di rap in un ghetto. Strappa sorrisi Zeus bodybuilder in pose narcisistiche che fa ballare i pettorali, Telemaco è un Pinocchio nelle mani di questi maschi da branco, trash e primitivi dagli atteggiamenti mafiosi governati dal cameratismo. Al gineceo delle donne va bene fare il coro, ora danzatrici del ventre adesso luttuose Troiane. Piena la scena del filo della tela di Penelope, gigantesca tessitura che diventa mare mosso e spago da Parche o reti di pescatori, ragnatela-labirinto, come la nave umana con remi-braccia che diventa gioioso trenino carioca al ritmo festaiolo di “Brigitte Bardot”. Temi pungenti, che lasciano, cifra stilistica della drammaturga palermitana, spiragli di ironia.

Lascia esterrefatti il nuovo “Bestie di scena”, un mero training fisico, esercizi da palestra tra coreografie che sembrano balli medievali, tutti insieme appassionatamente in queste pariglie estenuanti e sudatissime da marines. Le corse a perdifiato (sbadigli e colpi di tosse della platea) le prove ginniche da acrobati o da mezzofondisti in sincrono (cosa che ci lascia alquanto neutri e distaccati), il loro ansimare, il loro volteggiare come stormi che cambiano improvvisamente direzione. Questa la forma; il contenuto invece ci ha infastidito: in questo “Bestie” evidentemente Emma Dante mette in campo la sua idea di regia e il suo pensiero sul mestiere dell’attore. Le bestie sono i protagonisti, corpi senza dignità né volontà, manichini da manovrare a piacimento. Infatti, nei movimenti precisi e disciplinati, la tesi che si evince è quella di un deus ex machina-guru che governa il tutto, massima autorità su questi sette (numero biblico) uomini-Adamo e altrettante donne-Eva (nudi come installazioni di Tunick nell’Eden-palcoscenico).

Le scene prendono vita in una lentezza snervante con l’unico espediente che si concretizza nel getto di oggetti che piovono dall’alto o dalle quinte ai quali gli attori-burattini reagiscono come cavie da laboratorio. Quindi, capiamo che per la Dante l’attore debba essere necessariamente passivo, prigioniero alla catena, che attende come fan, come adepto un cenno dal suo dio in terra, il famigerato temuto regista. Verrebbe da sorridere: ti lancio un telo e come bambini ci giocate, ti tiro un pallone e infantilmente lo fate rimbalzare, ti sparo e cominci a roteare sul pavimento. Gli attori qui sono primati, scimmie stupide che fanno di tutto per compiacere il loro totem acido, il loro cattivo simulacro. Ne esce un’idea di teatro come setta con gli attori-bambole rotte, carillon semoventi a batteria che dedicano un canto-urlo-preghiera alla loro divinità onnipotente: la struggente “Only you” dei Platters. Ci ha messo addosso una sottile inquietudine e un velo di tristezza questa concezione del direttore crudele e malvagio che spreme e abusa dei suoi interpreti. Dopotutto senza attori non ci sarebbe il teatro. W l’attore.

[Visto a Milano]

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