Si vende il prodotto, ma prima ancora si vende l’immagine dell’impresa. Non è più sufficiente uno spot da 30 secondi, piazzato nella prima serata di un grande network, per garantirsi l’apertura di credito da parte del potenziale consumatore. Negli anni ottanta-novanta la campagna pubblicitaria si basava non tanto sulla descrizione delle qualità proprie del prodotto quanto dei valori che il possesso di quel prodotto avrebbe soddisfatto, e su una massiccia presenza tale da sovrastare il brusio di fondo. Via Larga a Milano è stata il “tempio” della pubblicità, era il modello della “Milano da bere” che ha conquistato, anche politicamente con Berlusconi, il Paese per un ventennio.

Ora quel variegato mondo di tante professioni (si pensi alle agenzie che erano delle vere e proprie boutique creative) non è più all’avanguardia.
La crisi economica e il web hanno rivoluzionato il modo di fare la pubblicità (per gli approfondimenti, segnalo l’interessante libro di Alberto Contri, “McLuhan non abita più qui?”, ed. Bollati-Boringhieri).

I consumi delle famiglie sono diminuiti: il timore per il futuro, lo scivolamento del ceto medio verso il basso, ha portato a dilazionare le spese per i beni strumentali e, in generale, a una maggiore accortezza anche sui generi di consumo giornaliero. La diffusione del commercio equo e solidale, degli outlet e degli hard discount, persino dei mercatini rionali, dell’acquisto online, l’attenzione agli sprechi alimentari, indicano una maggiore accortezza alla spesa da parte dei consumatori. La pubblicità classica, incentrata sulla creazione di “sogni”, ha poche possibilità di convincere i consumatori divenuti più avveduti.

La crisi ha determinato, nel frattempo, la riduzione dei costi sulla pubblicità, non tanto nell’acquisto degli spazi (che sono enormemente aumentati), ma nella strategia di comunicazione: un errore, giacché senza la pubblicità, senza una buona strategia pubblicitaria, non si vende.

Internet non è solo il luogo dove costruire il sito aziendale o ripetere lo spot già trasmesso in tv, ma è diventato il mezzo fondamentale della comunicazione pubblicitaria (ha il 29% della “torta pubblicitaria”, seppure dominato dalle grandi multinazionali della rete), al punto che il video-spot è ideato prima per il web, e da lì prende avvio il sentiment al quale si adatta l’intera campagna pubblicitaria.

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Il web è la “biblioteca” più rifornita per chi vuole informarsi, anche sulle scelte di consumo. Il primo impatto sul prodotto avviene spesso proprio su Internet: sui social si commenta la il concerto e la manifestazione sportiva sponsorizzati; ci si diverte con i video, con un balletto (vedi la campagna di Tim), ed è lì che si fanno le prime valutazioni sul costo-qualità del prodotto. Navigando in rete si conosce meglio l’impresa, e, cosa impensata prima, si conoscono i suoi manager, spesso diventati delle star. Il giudizio sul prodotto prende corpo in conformità a tutte queste informazioni. Per questo si è detto all’inizio che si vende l’impresa prima ancora del prodotto. I manager dovrebbero fare attenzione ai loro comportamenti, perché ciò influenza il giudizio sui loro prodotti: un rapporto conflittuale con i dipendenti, la non garanzia delle pari opportunità, la non tutela dell’ambiente, liquidazioni monstre ai top manager, il sostegno per uno schieramento politico dal quale si attingono evidenti vantaggi, l’irrisione del presidente di una squadra di calcio e di una società automobilistica verso altri tifosi, sono esempi di comportamenti che potrebbero incidere negativamente sulle scelte di acquisto.

Internet permette ai consumatori d’informarsi meglio: se il consumo-consapevole si diffondesse, le imprese sarebbero obbligate a migliorare i prodotti mentre la pubblicità dovrebbe essere più creativa. Non bisogna credere che la “tecnologia (il web) sia un contenuto, e che basti usarla per avere successo, senza metterla al servizio delle idee e della creatività” (Alberto Contri).

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