Moonlight. Ne abbiamo parlato diffusamente qui perché a noi il film di Barry Jenkins pare l’unico serio contendente all’Oscar di La La Land. Un ritratto intimista, pulsante e ribelle, di crescita e affermazione di sé, per un protagonista nero, Chiron, che attraversa tre fasi della vita (infanzia, adolescenza, età adulta) mostrando, dapprima in controluce poi sempre più in primo piano, la contrastante e faticosa normalità tra omosessualità e machismo criminale in una delle più pericolose periferie urbane della Florida. Stilisticamente stimolante e curato nei suoi cromatismi luminosi, caldi e persino psichedelici, Moonlight è un film davanti al quale il piacere cinefilo è stimolato a mille e qualitativamente vicinissimo alle confezioni più produttivamente più abbienti di Chazelle o Villeneuve (Arrival). Anche qui lo stesso neo di Hell or High water: la totale indipendenza produttiva e formale che in un festival d’essai magari europeo, o anche solo al Sundance o Telluride, fanno colpo e lasciano il segno, ma che sul trono illuminato di Hollywood rischiano di brillare come parente eccentrico e degno d’attenzione ma non come solido capofamiglia. Impossibile comunque che con otto nomination Moonlight non torni a casa con almeno una statuetta, magari per James Laxton (direttore della fotografia “bianco” in un film dalla crew al 99% nera) o per la prima montatrice di colore candidata agli Oscar, Joi McMillon.