Chissà che nostalgia canaglia deve prenderti quando sei a Berlino o a Londra, magari suoni in un gruppo transnazionale, e a un certo punto devi fare i conti con quelle melodie, quelle rime, che ti hanno segnato gli ascolti quando eri ancora in Italia. Ed è allora che Vasco Rossi, Dalla, Battisti, Ciampi ti sembrano quasi un miraggio esotico, lontani nel tempo e nello spazio, come una foto Polaroid desaturata e senza didascalie. E da qui al tornarci sopra con una penna per scriverci un disco, è un attimo (o quasi).

Giorgio Poi, novarese di nascita ma cosmopolita d’indole, è un nome che rischiava di perdersi nel marasma di uscite discografiche della settimana sanremese, se non fosse che il suo esordio solista “Fa niente” era un osservato speciale. A quest’attesa hanno contribuito sia i meriti musicali del ragazzo oltre-frontiera con i Cairobi (ex Vadoinmessico), sia la collaborazione tra Bomba dischi e la Universal. Forse qualcuno si aspettava l’esordio pianificato a tavolino di un nuovo Calcutta, ma la verità è che questo artista ha una tavolozza espressiva e musicale ben più ampia.

È molto lunga la strada che da Milano porta in paradiso” canta Giorgio con voce metallica in Niente di strano. Ora, io non so come ci si possa dire addio nel capoluogo lombardo – se davanti alla porta di un frigo o all’ingresso della metro – ma quello che so è che questo pezzo suona trasognato come un corteggiamento di Alan Sorrenti ai Tame Impala. E questo, non lo nego, mi piace molto. Quella vena psichedelica la ritroviamo anche altrove nell’album, a partire dall’open track L’abbronzatura. Progressioni cromatiche discendenti per chitarre acide e un testo che ammicca a Battisti raccontano una sonnacchiosa estate tra claustrofobie comunali e traslochi dal terzo piano. La penna di Giorgio Poi dà il suo meglio in Tubature, un micro-idillio visto dai vetri di un bar con sogni di fuga al mare. Qualcuno ci sente Dalla, a me torna in mente Stormi di IOSONOUNCANE.

Per inciso: la poetica delle piccole cose, che in questo disco emerge a colpi di rime imprevedibili, non è una prerogativa di Giorgio Poi. Già altri ne hanno fatto un marchio di fabbrica, dai sussurri domenicali di Colapesce alle tinte ironiche e nostalgiche di Dente per finire con i maglioni di Tommaso Paradiso. La novità delle sue canzoni è che si ha l’impressione di trovarsi in un Amarcord contemporaneo, un’Italia immaginata al presente ma filtrata con i colori sbavati di un passato indefinito.

E come in Amarcord, non mancano una Romagna sognata (“Si potrebbe andare a Rimini a vedere il mare”) e un racconto che attraversa in modo sghembo tutte le stagioni  (“L’inverno col sole, d’estate quando piove, così mi dà un senso di novità”). La ricerca di un altrove ritorna ancora in Paracadute (“Sono andato in montagna ma volevo nuotare”) e nel congelamento di un istante che si nega – vivaddio – ad Instagram, “tornando dal mare senza nemmeno una fotografia” (Le foto non me le fai mai).

Non fa niente, pur basandosi su suoni semplici e una produzione home-made, adotta soluzioni d’arrangiamento complesse, talvolta sorprendenti. Non è uno che cerca la linea melodica scontata, ma anzi evita pure quei “sinti” (per dirla alla Enzo Savastano) che fanno tanto “scena romana”. E non fa niente se non ci troverete il nuovo tormentone alternativo, pur avendo tutti i pezzi una loro immediatezza. La cosa più bella di questo disco è come un ragazzo che vive da dieci anni all’estero sia riuscito a riappropriarsi in modo creativo della sua lingua, dipingendo una cartolina agrodolce di cui non si capisce più chi è il destinatario e chi il mittente. Ma in qualche modo, ti ci senti in mezzo.

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