di Antonio Madeo

Quando vedo i dati Istat sull’economia italiana, penso che forse esistono due Italie: quella ufficiale fotografata dai numeri e quella reale che vivono i cittadini e in particolare le partite Iva italiane. Intanto per il Pil che nel 2016 secondo l’Istat cresce, anche se di decimali di punto, ma che cresce, con un’impennata finale a dicembre. Il Pil, nuovo totem della società odierna cui inchinarsi senza porsi domande. Poi prendi coraggio e frughi un po’ di più tra i numeri e vedi che esso, il Pil totem, è formato oggi in Italia per almeno il 50% dalla spesa delle pubbliche amministrazioni, per un 25% circa dai settori produttivi (agricoltura e pesca, manifatturiero in senso stretto, edilizia). Il restante sono i servizi (alberghi, commercio, comunicazioni, professioni, ecc). E allora inizi a capire.

Capisci perché il Pil cresce. Perché non viene mai spiegato che il Pil generato dai settori produttivi è fermo al palo da almeno il 2008 mentre a crescere è soprattutto la spesa delle pubbliche amministrazioni. Cioè quella che viene finanziata prevalentemente con le tasse gravanti sui servizi e sulle attività produttive e, quando ciò non basta, con il debito pubblico. Per il benessere ed il futuro di un Paese non è la stessa cosa se a crescere è la sua base produttiva o quella che gli economisti classici chiamavano le attività improduttive. Perché è la prima che finanzia la seconda, operando sui mercati, e non viceversa.

In sintesi e banalizzando un poco il concetto, si sta riducendo sempre di più la base produttiva che produce ricchezza da tassare e aumenta sempre di più la spesa pubblica che richiede tasse per finanziarsi. E’ questo il motivo che sta mettendo in crisi i conti pubblici e fa lievitare ogni anno il debito pubblico in Italia.

E anche circa i dati relativi al settore manifatturiero ed ai servizi è lecito chiedersi: ma davvero i dati Istat catturano la realtà? Quanto la fotografia economica che l’Istat scatta è attendibile? L’impressione è che la deindustrializzazione che il nostro Paese sta vivendo non trova spazio in quei numeri. E anche i dati recenti sulla produzione industriale di dicembre 2016 confermano questa impressione.

Non stiamo mettendo in dubbio la buona fede dei ricercatori dell’istituto centrale di statistica. Ma piuttosto riteniamo che qualcosa di perverso o di insufficiente esista nel loro metodo di assemblaggio. Ad esempio è notorio che storicamente le partite Iva italiane in tempi normali hanno un volume di affari che è il doppio di quello dichiarato. Ma la recessione degli ultimi anni ha probabilmente portato molti imprenditori a dichiarare al fisco la loro attività reale, attività reale oramai prossima ai minimi imposti dagli studi di settore. In pratica la crisi ha fatto allineare il dichiarato al reale. E’ sparito il sommerso che era abbondante negli anni buoni e che comunque era ricchezza che circolava nel Paese. Ora che quell’abbondanza non esiste più non c’è più nulla da nascondere al fisco. Questo fenomeno l’Istat lo vede?

Perché la percezione che molti operatori hanno è che negli ultimi anni la domanda di consumi in Italia stia franando di percentuali molto consistenti. Alcuni ipotizzano per gli ultimi due anni una riduzione dal 10 al 20% l’anno. A seconda dei settori. Ci farebbe piacere ricevere chiarimenti su questi temi da parte dei ricercatori Istat. Anche per rendere più fruibili e credibili i dati che essi forniscono.

Riceviamo e pubblichiamo la seguente risposta di Gian Paolo Oneto, Direttore centrale per la Contabilità nazionale Istat

Nel suo post “Crescita, l’Italia non è quella dei numeri Istat” del 13 febbraio 2017, Antonio Madeo sostiene che le misure dell’Istat (e in particolare il Pil) forniscono una rappresentazione della crescita recente dell’economia italiana molto più positiva di quanto non sia in realtà. Le considerazioni presentate a supporto di questa  argomentazione sono più che fragili e qui di seguito ne spieghiamo i motivi,  punto per punto:

– Il Pil non è in alcun modo formato al 50% dalla spesa della pubblica amministrazione. È vero che le uscite totali del settore della PA, che includono le retribuzioni dei dipendenti pubblici, gli acquisti di beni e servizi per il funzionamento della macchina pubblica, la spesa per opere pubbliche (investimenti), la spesa previdenziale e altre componenti ancora, pesano per poco meno del 50% del Pil. Ciò significa che quasi il 50% del reddito prodotto in un anno viene intermediato, utilizzato e re-distribuito dalla PA, ma non che essa lo produca. Il valore aggiunto della PA incide per circa il 15% su quello complessivo (con una quota piuttosto stabile nel tempo). Il resto (75%) è prodotto da unità che agiscono sul mercato cui si aggiunge la componente (piccola) del non profit. Inoltre, l’affermazione secondo la quale i settori produttivi sarebbero solo agricoltura, industria e costruzioni (che pesano in effetti per meno del 25%) corrisponde a una lettura dello sviluppo economico molto datata che non tiene conto del ruolo crescente dei servizi, e segnatamente di quelli che usano le nuove tecnologie, all’interno dei consumi privati e degli investimenti. Oggi in tutti i paesi avanzati i settori trainanti sono quelli dei servizi alle persone e alle imprese e in quasi nessuno di tali paesi l’industria presenta una quota più elevata di quella che si osserva in Italia (l’unica eccezione di rilievo in Europa è la Germania).

– Le considerazioni di Madeo su debito e finanziamento delle “attività improduttive” non hanno alcuna attinenza con la misura della dinamica dell’attività economica, pertanto non mi è possibile entrare nel merito al riguardo.

– La riduzione del peso economico del settore industriale è un dato misurato dall’Istat cui tutti gli analisti più accreditati si riferiscono. Oltretutto tale riduzione è comune a gran parte delle economie occidentali (ad esempio Usa, Regno Unito, Francia, Spagna). Debbo inoltre segnalare che il calo della quota di valore aggiunto prodotto direttamente dall’industria non è in alcun modo un argomento in grado di dimostrare che il Pil presenti una dinamica piuttosto che un’altra.

– Quantificare il livello e la dinamica del sommerso è certamente difficile e l’Istat ha molto lavorato per giungere a un metodo robusto di misurazione. Ipotizzare – basandosi su pretesi fatti “notori” – che “le partite IVA italiane in tempi normali hanno un volume di affari che è il doppio di quello dichiarato”, non è un metodo scientifico e neppure efficace. Per operare la stima del sommerso l’Istat utilizza basi dati che prendono in considerazione tutto l’universo delle imprese attive e analizza le distribuzioni del giro d’affari di milioni di operatori, giungendo a individuare tipologie di sotto-dichiarazione estremamente differenziate (inclusa la situazione delle moltissime imprese le cui dichiarazioni risultano corrette). Tutto ciò viene fatto tenendo conto di un insieme di variabili economiche che discriminano il comportamento degli operatori. In questo modo, si considera anche l’effetto che l’andamento settoriale, piuttosto che territoriale, dell’attività ha sul grado di emersione/sommersione del reddito. Peraltro, alcuni critici – riferendosi anch’essi a fenomeni “notori” – tendono ad affermare che la crisi degli ultimi anni ha fatto aumentare l’economia sommersa e che se l’Istat misura una crescita debole è perché non coglie tale aumento. Anche in questo caso, nessun fatto viene misurato, ma si formulano soltanto ipotesi.

– Anche le ipotesi di riduzione dei consumi dal 10 al 20% all’anno, riportate nel blog sono prive di qualsiasi fondamento. Se i consumi fossero caduti, grosso modo, del 30% in due anni, ci sarebbero milioni di posti di lavoro persi, una crisi economica di dimensioni mai viste nel mondo moderno in un paese non colpito da una guerra distruttiva. L’Istat misura i consumi delle famiglie residenti in Italia tramite un’indagine continua disegnata scientificamente e con un robusto campione di intervistati, codificata a livello europeo e internazionale. Questi dati vengono poi integrati da altre informazioni, quali quelle sulle immatricolazioni di autovetture (in forte crescita, a smentire la catastrofe…) o sui consumi energetici. Infine, l’Istat controlla con metodologie precise che la stima della domanda di beni e servizi di consumo sia coerente con quella dell’offerta, nazionale e importata, delle medesime tipologie di prodotto.

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