Sanremo, teatro Ariston, venerdì sera. C’è la quarta serata del Festival e Francesco Gabbani sale sul palco per cantare la sua canzone: Occidentali’s karma. Nelle sere precedenti si era esibito accanto a un ballerino vestito da scimmia che ballava; adesso è lui vestito da scimmia e il ballerino da Gabbani, con la sola testa da scimmia. È in quel preciso momento che il cantautore di Carrara stabilisce il contatto decisivo col pubblico: la sua non è solo una canzoncina sciocca condita da un balletto caricaturale, ma c’è un preciso messaggio dietro.

È lì che, dopo la vittoria di Meta nella serata delle cover, si è plasmata l’idea del podio di ieri sera (detto tra noi, sulla vittoria di Gabbani ho anche puntato qualcosina: berrò alla sua salute). Il messaggio di Gabbani investe per primo se stesso, e dice più o meno – nello specifico, nell’ambito delle religioni orientali – che il tentativo intellettuale di sembrare ciò che non siamo ci fa regredire nella scala evolutiva al ruolo di scimmie.

Francesco Guccini lo disse nel 2000, a suo modo, con i versi: “Alle magie di moda delle religioni orientali/ che da noi nascondono soltanto vuoti di pensiero”. I versi di Gabbani non sono poeticamente rilevanti, ma arrivano in maniera leggera e d’impatto, nel modo preciso in cui devono arrivare. Persino con studiata consapevolezza paracula. Lo spettatore lo capisce subito, mangia la foglia perché è giusto così. Gabbani lo dice a modo suo, un modo molto vicino al brano Amen, che l’anno prima lo fece vincere tra i giovani. Quello è il suo stile, la sua poetica, il suo modo di essere cantautore.

Ieri sera non ha fatto altro che raccogliere i frutti, sulle ali dell’entusiasmo creato da una serie di performance, studiate e perfette in ogni previsione e in ogni riuscita. Si fa fatica a ricordare un brano – vincitore o meno – degli ultimi anni di Sanremo. Il suo resterà. Non può che essere questo il momento musicale più significativo della serata finale di Sanremo 2017.

Il peggior momento musicale di ieri sera invece è di tenore diametralmente opposto, e forse era persino descritto, tra le righe, nei versi del brano stesso di Gabbani: è stato quello dei “super ospiti” Amara e Vallesi con la canzone Pace. Fra l’altro, Amara è l’autrice del testo Che sia benedetta, di Fiorella Mannoia: brano banale, retorico e scontato al sommo grado. Ecco, Pace, lo è – se si può – molto ma molto di più. Ma andiamo con ordine e vediamo come mai quel momento è stato davvero il più basso, forse non solo dell’ultima sera ma dell’intera edizione 2017.

Prima di tutto è persino ridicolo che Amara e Paolo Vallesi siano ospiti nella finale di Sanremo, esibendosi in un momento clou come quello che precede il verdetto. L’altro ospite è stato Zucchero, per dire, uno che ha venduto milioni di dischi nel mondo e che ieri sera ha dimostrato la naturalezza dei fuoriclasse.

Il brano Pace è un’accozzaglia di retorica ecumenica, che sarebbe stato appena accettabile in gara, non certamente voluto di proposito per un’ospitata. Se poi la sua autrice ed esecutrice si sta giocando il primo posto, perché ha scritto il testo di un’altra canzone cantata da una cantante che potrebbe vincere di lì a poco, si sfiora l’indicibile.

Amara canta con dito in su e aria di chi la sa lunga, prima di esplodere nel ritornello con versi sempiterni: “Pace!/ In nome dell’amore per la libertà. La pace!/ Per riscoprire il senso dell’umanità”. Agghiacciante. Carlo Conti aveva introdotto Amara con le parole di pace di papa Francesco. Ecco, come dire? Se le dice il papa hanno un senso e un peso; se le dice Amara, magari non è uguale. Ad ogni modo, la chiusura è anche peggio: il brano si conclude con un sermone fuori dalla melodia. Il sermone inizia così: “Dov’è finito il buonsenso?”. Andrebbe chiesto a Carlo Conti che ha avuto l’idea di far esibire Amara come ospite, in effetti.

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