Quando sono le otto di sera passate, Yassin ha un cartello con scritto “Justice” spiegazzato che gli penzola da sotto il braccio e se ne sta in piedi di fronte al tribunale di Bobigny, alle porte di Parigi. “Finisce male. Se continuiamo così finisce male. Questa storia la conosco a memoria”. Fissa i cassonetti in fiamme che rotolano dalla strada di palazzoni grigi che si perdono nel cielo e chiede agli amici di non muoversi. Che vuol dire non indietreggiare e non lasciare che le forze dell’ordine guadagnino terreno. Un gruppo di ragazzi sale su un quadrato di cemento e tira massi contro le camionette della polizia che sbandano al passaggio. I colpi sembrano spari e tutti d’istinto abbassano la testa, le macchine sgommano e la folla si mette a correre. L’ennesima giornata di tensione nella banlieue di Parigi, il maledetto 93100, inizia alle 16. Più di 2mila persone arrivano al capolinea della metro 5 per una manifestazione pacifica in solidarietà di Théo, il ragazzo vittima di un presunto stupro durante un controllo della polizia ad Aulnay-sous-Bois. Il luogo non è stato scelto a caso: mercoledì 8 febbraio, in quello stesso tribunale, sono stati condannati due ragazzi a 6 mesi di prigione per gli scontri avvenuti dopo la notizia della violenza. Per due ore i manifestanti si passano un microfono e chiedono “giustizia rapida” anche per chi porta la divisa. Fanno appelli alla calma, ma poi incitano i compagni al grido “poliziotti assassini e stupratori“. In mezzo ai fischi cantano pure la Marsigliese, concludendo con “Noi siamo francesi”. La situazione precipita non appena cala la luce. A dare il segnale è l’incendio della macchina del canale tv Rtl, a pochi metri dal comizio e sotto gli occhi della polizia. Alcuni manifestanti lanciano oggetti contro gli agenti schierati sulla passerella che porta al tribunale e iniziano a scoppiare petardi e fuochi d’artificio.

“La tattica è sempre la stessa”, spiega Yassin. “Io c’ero nel 2005, quando ci fu la rivolta delle banlieue. Si alzano i toni e le autorità per prima cosa bloccano i trasporti. Non abbiamo via di fuga e diventa una sfida tra noi e loro. Solo che noi non abbiamo paura”. Alle 20.30 ci sono ancora centinaia di persone intorno alla zona blindata. Comincia a nevicare e il freddo passa attraverso i vestiti. Ogni dieci minuti la polizia spara in aria lacrimogeni e la folla corre a proteggersi nelle strade laterali. Passano cinque minuti e ritornano indietro. Un gruppo sale verso la tangenziale che porta a Bondy, direzione Parigi, ed entra in un distributore di benzina chiuso: staccano pezzi di lamiera e gomma e li ammassano in mezzo alla strada. “E’ una barricata”, grida uno, prima che il nuovo lancio di lacrimogeni lo costringa a correre insieme ai suoi compagni. “Va avanti così da più di una settimana”, dice Yassin. “Nei quartieri la notte è il momento più difficile”. Il ragazzo ha 32 anni, la pelle nera da figlio di immigrati venuti dal Senegal, e c’era quando, undici anni fa, i moti partiti da Clichy hanno dato il via alle proteste: “Non è cambiato niente da quel momento, anzi in alcune zone si sta peggio. Ci avevano detto che avrebbero aiutato i giovani, che avrebbero preso in mano la situazione. E’ durato sei mesi e poi siamo tornati da capo”. Sta in mezzo ai compagni che danno fuoco ai cassonetti e li guarda a malincuore senza dire niente: “Io ero così. Capisco quella rabbia. Nel 2005 ero un casseur, un vandalo: spaccavo tutto, ma ora so che non ha senso. Che i media mostreranno solo quelle immagini. Conosco la frustrazione: la violenza che hanno fatto a Théo è stato l’atto di troppo, è esplosa una bolla e ora non possiamo fermarci. Sarà il caos di nuovo nelle banlieue”. Léa sta di fianco a lui con la sciarpa che le copre la bocca per proteggersi dal fumo e annuisce a ogni frase. Studia diritto a Parigi, ma è nata e vive in banlieue. “Non serve a niente questa guerriglia, non farà avanzare le cose. Ma come facciamo a vivere sapendo che non ci sarà mai giustizia per noi? Théo non avrà mai giustizia e noi lo sappiamo”. Stanno immobili al centro della rotonda, mentre intorno la gente corre per evitare le cariche della polizia. Si avvicina Mathieu, capelli biondi e codino, cappuccio sulla testa. E’ uno di quelli che è venuto a portare i rinforzi dalla città: “Non possiamo dividerci adesso”, grida. “Dobbiamo restare uniti e non ha senso condannare le violenze. E’ un modo per far sentire la nostra voce”. A Yassin viene quasi da piangere, ma fa fatica a contraddirlo: “Questa è casa nostra”, gli risponde fissandolo negli occhi. “Sono le nostre strade che stiamo distruggendo. La rabbia deve uscire dai quartieri popolari. Andiamo piuttosto a distruggere l’Eliseo”.

La manifestazione è nata dopo giorni di tensione e nonostante il governo abbia cercato di intervenire per calmare le acque. Il raduno è partito sui social network e l’idea è stata di due studenti universitari di 18 anni: Yanis Rezzoug e Issa Bidard. La Francia vive in stato d’emergenza dagli attentati di novembre 2015 e ogni manifestazione è, a prescindere dalla ragione, un motivo di grande tensione con la polizia. A manifestare per Théo sotto il nevischio di inizio febbraio si sono presentati gli abitanti delle banlieue, ma non solo. Tanti adolescenti, militanti delle associazioni contro il razzismo e gente venuta dal centro di Parigi per dimostrare che non sono soli. Dara, Alima e Farisa, rispettivamente 19, 23 e 25 anni, abitano ad Aulnay-sous-Bois, là dove Théo è stato aggredito: “Abbiamo paura. Dove viviamo noi sono due settimane che hanno fermato ogni mezzo di trasporto per evitare disordini. Non possiamo fare niente: usciamo di casa e ci sono i poliziotti schierati. Ma noi cosa abbiamo fatto? Non siamo tutti uguali e meritiamo giustizia. Ci dipingono come stranieri, ma noi siamo nati qui. Questa è casa nostra e noi cambieremo la storia della Francia”.

Tra la folla c’è anche Madjd Messaoudne, consigliere comunale di Saint-Denis, altra zona calda della banlieue. “Sono qui per denunciare l’impunità di poliziotti razzisti che pensano di poter fare quello che vogliono nelle strade. Servono sanzioni chiare e più poliziotti di qualità. Lo Stato non può continuare a chiudere gli occhi: deve tornare nei quartieri popolari. Troppi dei nostri giovani sono colpiti ingiustamente dalla violenza delle forze dell’ordine”. Per tutta la giornata c’è un unico coro ad accompagnare la manifestazione: “Police assassins”. Tanti sedicenni in prima fila a tirare i sassi e a fare a gare per gridare più forte degli altri la parola “assassini”. Fatima non si dà pace: è arrivata al presidio tra i primi e girovaga per tutta la zona con l’aria inquieta, portandosi le mani al petto a ogni urlo. “Io ho 65 anni e cinque figli”, dice. “Questi ragazzi potrebbero essere tutti miei figli. Théo avrebbe potuto essere mio figlio. Io non ce l’ho con la polizia, chiedo solo umanità perché la violenza non può che generare altra violenza”.

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