Anche le storie più atroci, in Africa, vengono raccontate senza emozioni apparenti, a volte sorridendo, con un riserbo che sembra indifferenza, quasi che fossero catastrofi naturali , come la siccità o le piene improvvise dei “wadi” , i fiumi. Parlano così anche le donne mutilate che raccontano il calvario dell’infibulazione nel web-documentarioUncut, la lotta delle donne contro le mutilazioni genitali femminili“, un progetto di “Zona” girato da Simona Ghizzoni ed Emanuela Zuccalà in Kenya, Etiopia e Somalia e presentato nei giorni scorsi a Milano.

Rispetto ad altri reportage sull’argomento, “Uncut” vuole mantenere il riserbo dei racconti che raccoglie, anche nel modo di girare e di impaginare la storia. Per questo rinuncia volutamente al terrificante repertorio di immagini di archivio dell’infibulazione (predilette dalla ‘tv del dolore’) e lascia scorrere le parole di chi l’ha subita (o schivata) intervallandole
solo con alcune foto di aghi e lamette che bastano da sole a togliere il sonno. Il sonoro del film – fatto di tamburi e musiche tradizionali – evoca i documentari di Jean Rouch. Dalle foto in bianco e nero delle donne e delle loro fatiche quotidiane emerge il continente perduto della povertà africana comunicando la sensazione di una lontananza incolmabile, come il mare che ogni tanto si chiude sui barconi.

Attraverso la ‘diversità’ assoluta di un mondo regolato da tradizioni tribali così forti che neppure la religione più diffusa, l’Islam, potrebbe contrastare (ammesso che lo voglia), le voci delle donne mutilate arrivano con una incredibile dignità e “innocenza”. E’ come se ci parlassero da dietro un velo, come se ci dicessero: “Siamo come voi. Avremmo voluto avere vite normali, come le vostre, sensazioni normali come le vostre. Avremmo voluto le stesse gioie, lo stesso piacere. E vorremmo, almeno per le nostre figlie, un destino diverso dal calvario di infezioni, sofferenze e dolori che abbiamo dovuto affrontare”. Le donne che subiscono l’infibulazione infatti, devono essere di nuovo ‘tagliate’ quando si sposano e poi ancora quando partoriscono, il tutto senza anestesia e con cuciture fatte con gli aghi di una pianta spinosa.

Nel 2010, per “Storie di confine” (Rete4), avevo raccontato questa tragedia in Burkina Faso con Clara Caldera, Paola Cirillo e le bravissime ragazze di Aidos, che, con le donazioni delle donne del Pd di Roma, hanno costruito a Ouagadogou, un centro medico per educare le donne a rifiutare queste pratiche e a proteggere le figlie. La circoncisione femminile in Burkina Faso è vietata dalla legge, ma nei fatti continua a essere praticata su larga scala. Una delle vittime di questa usanza mi raccontò che quando subì l’operazione, aveva nove anni e venne condotta alla dimora della “escisseuse” con un gruppo di bambine della stessa età. Al tramonto, mentre tornava al villaggio intontita dal dolore e accompagnata dalla madre, si accorse che mancava una delle bambine che al mattino era con lei. Poco dopo, vide che stavano scavando una fossa dietro alla casa.

“Uncut” spiega che le donne che “diventano adulte” con questa cerimonia e che quindi possono essere date in sposa permettendo ai genitori di incassare la dote, sono circa 200 milioni, sparse per almeno 30 stati e che sono almeno 500.000 le immigrate che vivono in Europa ad averla subita. Nel filmato si racconta anche la storia di Janet che ha 14 anni e dopo aver assitito alle sofferenze della sorella, è scappata di casa e ora vive presso il centro della Rete Donne di Kongelai (Kenya). Dice che da grande vorrebbe fare il medico. I bucanieri della politica che nei talk populisti tuonano ogni giorno “Aiutarli a casa loro!” potrebbero (forse) realizzare il suo sogno.

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