L’appello per il Nobel della Letteratura a Predrag Matvejevic era stato lanciato anche in questo blog, una lettera condivisa da decine di intellettuali, giornalisti, docenti universitari che oggi ha il sapore dell’ultimo saluto allo scrittore bosniaco che si è spento a Zagabria dove si era trasferito qualche anno fa dopo aver lasciato l’insegnamento di Slavistica all’Università La Sapienza di Roma.

La cronaca degli ultimi mesi di vita di Matvejevic è triste, ha finito i suoi giorni malato in un modesto ricovero per anziani e nulla si è potuto fare per aiutarlo, nonostante l’appello alla famiglia e al governo croato e quello nazionale, poiché questo grande intellettuale era anche cittadino italiano. L’abbiamo incontrato per l’ultima volta nell’ospedale Godan Dom a Zagabria, dal quale non poteva uscire ed era tenuto sotto stretta sorveglianza, i medici del luogo parlavano di problemi psichiatrici, ma in quella occasione Matvejevic mi ha riconosciuto, abbiamo parlato, sembrava lucido e presente, rassegnato alle rigide regole del luogo, costretto a convivere con una ventina di altri pazienti, in uno spazio ridotto nel quale era difficile persino camminare.

La stanza non era più grande di trenta metri quadri. L’odore del cibo mi è rimasto impregnato nel cappotto, il rumore delle chiavi che si chiusero alle mie spalle alla fine della visita lo risento ancora e fa male. I parenti e la moglie mi dissero che quella condizione sarebbe durata poco, e si è protratta invece per quasi due anni, mi era stato assicurato che lì riceveva le migliori cure possibili, ma quello dove si trovava non era un centro specializzato, né veniva promossa alcuna cura riabilitativa. Questi dubbi furono poi confermati anche dal cugino di Predrag Matvejevic il dott. Petar Kokorilo che vive in Svezia dove è un eminente clinico il quale in una lettera di denuncia poneva l’attenzione sulla struttura e le cure allo scrittore.

Questa la triste cronaca della fine, ma ora importante è tenere sempre viva la memoria delle sue opere, non solo e non tanto per ricordarlo quanto per trarre frutto dai suoi insegnamenti, nella sua instancabile opere di riportare al centro il nostro Mediterraneo, una casa comune da contrapporre alle fratture e alle contrapposizioni, ai “muri” ideologici e l’odio che oggi sembrano poter sopraffare quella che è stata la genesi della nostra civiltà. “L’Europa ha dimenticato la sua culla” ripeteva sempre Matvejevic, riferendosi al Mediterraneo e preconizzando nelle sue opere quanto oggi stiamo vivendo. Lui è riuscito prima a regalarci occhi nuovi per guardare al mare nostrum, il suo Breviario Mediterraneo (Garzanti, prima edizione è del 1988) è un’opera ineguagliata, fa il pari per la “geopoetica” alle opere storiche di Fernand Braudel.

Il bosniaco era consapevole che la riscoperta delle radici di questo grande mare potesse essere l’unico antidoto alle tante fratture che lui aveva vissuto e sofferto sulla sua pelle con l’esilio, nella tragedia del Balcani. Su questi temi si possono citare Epistolario dell’altra Europa (Garzanti, 1992), Sarajevo (Motta, 1995), Ex Jugoslavia. Diario di una guerra (Magma, 1995), con il prologo di Czeslav Milosz e l’epilogo di Josif Brodskij, premi Nobel, Mondo Ex – Confessioni (Garzanti, 1996); Tra asilo ed esilio (Roma, 1998); I signori della guerra (Garzanti, 1999)  e L’altra Venezia (Garzanti, 2003) che affonda nell’identità del nostro Adriatico che lui definiva un Mediterraneo ridotto, “poiché assume in in sé tutte le contraddizioni mediterranee, ne concentra le componenti”. Così mi raccontò in una serie di interviste adriatiche che gli feci qualche anno fa dopo averlo raggiunto nella piccola isola di Kolocep in Dalmazia dove passava parte dell’estate.

Siamo diventati amici, l’ho seguito spesso nei suoi peripli mediterranei, specialmente in Puglia, era instancabile Matvejevic, non si risparmiava, raccontava il mare, incantava con il suo timbro dall’inflessione slava che sapeva essere un flauto, ti inchiodava con lo sguardo e la forza delle parole. Raccontava con la stessa passione, così di fronte ad una grande platea, che davanti a pochi intimi, nei salotti o nelle feste tradizionali. Lo ricordo a Giovinazzo per l’inaugurazione della Vedetta sul Mediterraneo, dove non resistette al colore delle acque del porto, vestito di tutto punto con giacca e cravatta si spogliò senza pudore sulla banchina e fece una meravigliosa nuotata.

La sua caratteristica più grande è sempre stata la generosità, donava gran parte di quello che guadagnava ad altri artisti meno fortunati, ha sempre rivolto il suo sguardo e i suoi gesti a chi gli chiedeva aiuto. Nella breve, certamente non esaustiva, rassegna delle sue opere non può mancare Pane nostro (Garzanti 2015) che è una specie di testamento spirituale, un invito, ancora una volta alla condivisione nel semplice gesto di strappare e spartire il pane, così come è da sempre in tutte le culture e nell’eucarestia cristiana. Un uomo grande Matvejevic, che ha segnato la nostra epoca, non meritava di finire dimenticato in un ospedale, ma forse anche questo è specchio dei tempi.

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