Il documento è intestato “Ministero degli Affari esteri dell’Eritrea” e firmato dalla direttrice degli Affari consolari Lia Tesfai. È scritto in tigrino, la lingua che si parla in Eritrea. “La persona di cui si parla è Medhanie Tesfariam Berhe, nato nel 1987 ad Asmara. Confermiamo che si tratta di un cittadino eritreo e che questa è la sua carta d’identità”. La foto del documento ritrae il ragazzo che da otto mesi si trova in carcere in Italia, con l’accusa di essere Mehdanie Yedahego Mered, alias “Il generale”, un grosso trafficante di uomini di base in Libia. È l’ennesima prova che in carcere c’è la persona sbagliata. Non per il Tribunale del Riesame di Roma, che il 19 gennaio scrive: “Tenuto conto che, in attesa di ulteriori approfondimenti investigativi, occorre valorizzare gli elementi che, anche sotto il profilo dell’esatta identità dell’arrestato, assurgono a gravi indizi e consentono di ritenere che il soggetto tratto in arresto in Sudan ed estradato in Italia sia l’indagato Mered”. Viene così respinta la richiesta di scarcerazione presentata dal legale di Behre, Michele Calantropo.

Difficile che nel contesto attuale, con l’Italia che si sta avvicinando al governo di Tripoli, possa esserci l’ammissione di un errore giudiziario: “I recenti accordi che l’Italia ha siglato con Paesi i come Sudan e ora Libia sono ancora da verificare sul campo”, sostiene il legale interpellato da IlFattoQuotidiano.it. L’operazione contro Berhe è stata condotta dalla polizia del Sudan (coordinata dalla britannica National Criminal Agency) in giugno, Paese con cui, due mesi dopo, l’Italia ha siglato un “Memorandum of understanding” che prevede, in sostanza, la possibilità di rimpatri veloci. Per Calantropo, quindi, il procedimento contro Behre potrebbe determinare la necessità di regolamentare meglio l’intero Processo di Khartoum, l’accordo tra l’UE e i paesi del Corno d’Africa che prevede una cooperazione internazionale tesa a contrastare il fenomeno delle immigrazioni via mare.

Il contesto, quindi, è contro Behre, dice l’avvocato: “È un processo complesso e delicato. Finora non abbiamo ancora affrontato il problema dell’identità del mio assistito. Ora si parla di alias, ma non credo che ciò troverà riscontri”, aggiunge. La storia di questo processo è surreale. Il 12 dicembre anche la Procura di Roma afferma che la foto di Mered non corrisponde all’uomo in carcere e lo afferma sulle base delle testimonianze di un collaboratore, Seifu Haile, e su altre perizie. Se la diplomazia di Asmara è intervenuta in questo caso è solo perché il “vero” Mered sembrerebbe ricercato per gravi reati e ha necessità di perseguirlo in Eritrea. Nemmeno questo però basta a far passare la richiesta di archiviazione.

“Difficile che un errore giudiziario possa diventare uno stimolo per ripensare alle politiche migratorie, la direzione in cui si va è chiara”. A dirlo è Antonio Morone, ricercatore di Storia dell’Africa all’Università di Pavia. L’incontro a Tripoli del 10 gennaio ne è la prova: il ministro dell’Interno Marco Minniti è volato a Tripoli per firmare un nuovo accordo bilaterale con la Libia, sulla scorta di quelli firmati nel 2008 da Roberto Maroni e nel 2012 da Annamaria Cancellieri. Tra i tre punti chiave c’è la “lottare contro l’immigrazione illegale e il traffico di esseri umani”, scrive il Viminale in una nota. Anche la Commissione europea, in vista del summit di Malta del 3 febbraio, cerca un accordo per fermare il traffico di esseri umani verso l’Italia.

“Siamo l’unico Paese che ha aperto di nuovo un’ambasciata in Libia”, aggiunge Morone. Obiettivo finale di questa rinnovata alleanza sarà arrivare a delle missioni congiunte in mare per fermare le imbarcazioni dirette in Italia e arrestare gli scafisti. A questo si aggiungono le deportazioni che i militari libici continuano a fare oltreconfine, in Niger: “Prelevano i migranti e li depositano fuori dal confine. Se le espulsioni funzionano con Paesi come l’Egitto o la Tunisia è perché esistono degli accordi bilaterali. Con il Niger no”, continua Morone. Il risultato è che il flusso migratorio non diminuisce: “Anzi, c’è il rischio di un effetto moltiplicativo: le persone respinte diventano passeur e aiutano altri a fare la stessa strada”.

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