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“Ho provato il burqa e mi è piaciuto”. Come generalizzare sugli arabi durante una vacanza in Kuwait

Flavia Piccinni, scrittrice, 30anni, vincitrice del premio Campiello nel 2005 racconta in un post pubblicato su huffingtonpost.it il suo viaggio a Kuwait City

La polemica di Shady Hamadi

“Ho provato il burqa e mi è piaciuto”. A parlare, o meglio a scriverlo è Flavia Piccinni, scrittrice, 30anni, vincitrice del premio Campiello giovani nel 2005. L’autrice racconta in un post pubblicato su huffingtonpost.it il suo viaggio a Kuwait City. Atterrata all’aeroporto, scrive la Piccinni, “avevo dimenticato le direttive arabe, e indossavo una giacca di lana aderente in vita, un vestito sotto al ginocchio, delle calze coprenti e delle scarpe con mezzo tacco. Non mi sono mai vergognata tanto”.

Il motivo della vergogna sono le “direttive arabe”. Gli arabi, continua, “non amano le mezze misure“. Per loro, spiega, “sono le prostitute a lasciare le spalle, le braccia e le gambe scoperte. Le occidentali smemorate non sono particolarmente amate”. E qui c’è bisogno di fermarsi. “Gli arabi” ai quali fa riferimento chi sono? I kuwaitiani sono come i libanesi? Gli iracheni come i kuwaitiani? Un kuwaitiano è uguale a un altro kuwaitiano? Per la Piccinini sì, a giudicare da quel “arabi” buttato lì, come se fossimo usciti con lo stampino. Tutti, anche chi scrive questo articolo, “non hanno mezze misure”. Quindi tu, donna occidentale che leggi l’articolo copriti bene, potrei vederti dallo schermo del telefonino.

Ma continuiamo. La scrittrice, accortasi di essere “fuori posto“, si è sentita in obbligo di recarsi al mercato dove, alla “modica cifra di dieci denari (sarebbe dinari, ma le abbono la svista), che sono poco più di trenta euro” ha acquistato “un burqa nero”. Il burqa è un indumento usato in Afghanistan. Andate in Kuwait, entrate in un negozio e chiedete un burqa. Non vi capirà nessuno. Il vestito al quale fa riferimento è l’abaya: si tratta di un lungo camice nero, di tessuto leggero, che copre tutto il corpo eccetto la testa, i piedi e le mani. Non è necessario coprirsi il viso e, come scrive, “abituarsi a respirare dietro una specie di grata”. L’abaya è usata nei paesi del golfo, nel resto del mondo arabo pochissimo.

In conclusione, la Piccinni confessa “guardandomi allo specchio, non ritrovando il mio viso, ma solo una nuvola nera, mi sono domandata se non sia forse questa una lezione che dobbiamo prendere dal mondo arabo: annullare la necessaria ossessione per l’immagine”. Insomma, bisogna trovarci qualcosa di filosofico. Questa è la miglior lezione che noi arabi (generalizzo anche io) possiamo darle sull’estetica, sulla bellezza e la consapevolezza di sé. Altro non abbiamo. Il nostro bello è una donna coperta dalla testa ai piedi. Non esistono belle donne, senza velo, che mostrano il loro corpo o il loro viso. A noi arabi – interpreto il pensiero della scrittrice – non interessa. Anzi, ci fanno schifo quelle in jeans. Non ci piace guardarci allo specchio.

Dopo questa caterva di interpretazioni, vorrei rassicurare la Piccinni- e chi la pensa come lei – che agli uomini arabi (si faccia un giro a Beirut, a Tunisi, a Amman, a Dubai) le donne piacciono anche senza “burqa”. Amiamo le mezze misure: ho amato donne con il velo, senza, con gli occhi azzurri o neri. Non siamo tutti maschilisti: non tutti imponiamo, usando la religione, il nostro volere sulle donne. In Iran – paese non arabo ma musulmano – nel luglio 2016 alcuni uomini avevano fatto circolare delle foto mentre indossavano il velo, in solidarietà con quelle donne costrette a indossarlo.

Visto che è una scrittrice, e immagino lettrice compulsiva, si legga – anche chi vorrà farlo oltre lei – Fatima Mernissi, Samar YazbeckAssia Djebar. Lo stesso consiglio a Lucia Esposito che, dalle pagine di Libero, polemizza con la Piccinni. Saluti da un uomo arabo…

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