Fra i due litiganti, il terzo gode. Mentre Mediaset e Vivendi perdono tempo prezioso a bisticciare, la statunitense Netflix cresce in maniera esponenziale. E rende la vita ancora più difficile per Premium e il suo omologo francese CanalPlus (gruppo Vivendi). Senza contare che mette nell’angolo la Rai, colpevole di sonnecchiare nel limbo del finanziamento pubblico. E pensare che solo pochi anni fa nessuno avrebbe scommesso sul modello di business della società americana. Oggi invece sono i numeri a parlare per lei: 19 milioni di clienti nel 2016, 93,8 milioni di iscritti a fine dicembre per un totale di 8,3 miliardi di ricavi (+25% annuo) e 188 milioni di utili (+54%). Non solo, la crescita va veloce: nel quarto trimestre, Netflix ha guadagnato 7,05 milioni di nuovi abbonanti, di cui 1,93 milioni negli Stati Uniti e 5,12 milioni sui mercati internazionali. Il segreto? Certamente una struttura snella con una produzione molto dinamica e soprattutto basata sull’effettivo gradimento del pubblico che, grazie ad internet, viene misurato cliente su cliente. Senza contare un’ offerta on demand competitiva nei contenuti e ad un prezzo stracciato.

Così mentre gli americani avanzano decisi sul mercato italiano, Mediaset tenta di correre ai ripari. Da Londra, Piersilvio Berlusconi ha annunciato che taglierà drasticamente i costi di Premium partecipando solo alle gare per i diritti tv sul calcio compatibili con i vincoli di bilancio e redditività. Detta in altri termini, Premium non potrà più spendere come oggi 600 milioni l’anno per i diritti di calcio (380 per la sere A e 220 per la Champsion League) perché il gioco non vale la candela. Questo approccio permetterà a Mediaset di generare 200 milioni di reddito operativo aziendale in tre anni. Inoltre il gruppo di Cologno Monzese punta ad incrementare la quota sul mercato pubblicitario italiano passando dall’attuale 37,4% ad oltre il 39 per cento nel 2020. Come? Grazie ad un rafforzamento della raccolta che passerà anche per gli spot “regionalizzati” e profilati sulle abitudini per le tv connesse.

Non resta che chiedersi se tanto basterà a proiettare Mediaset nel futuro grazie anche alla recente alleanza con la francese TF1 e la tedesca ProsiebenSat. Di certo per conquistare nuovo spazio in Italia, il gruppo di Cologno Monzese dovrà vedersela anche con Sky che è in piena ristrutturazione. La tv, che fa capo al magnate Rupert Murdoch, ha infatti appena svelato un piano che prevede 120 esuberi e 300 trasferimenti (su un totale di 600 persone) da Roma a Milano. Inoltre promette di dare battaglia anche sul fronte della raccolta pubblicitaria attraverso Ad Smart, una piattaforma che permette una pianificazione mirata degli spot in linea con la nuova era digitale. Infine il Biscione dovrà anche fare i conti con l’era di internet: se infatti la tv in chiaro resta regina indiscussa degli incassi pubblicitari (3 miliardi, dati Agcom, 2015), sul mercato italiano dell’advertising spuntano anche i big della rete Google e Facebook. Senza peraltro aver fatto grossi investimenti in Italia né partecipato allo sviluppo di infrastrutture la cui evoluzione digitale è sulle spalle degli operatori di telecomunicazione e dello Stato.

Lo scenario del resto non è molto diverso Oltralpe. Non a caso Vivendi, che ha dovuto fare i conti con 400 milioni di perdite di CanalPlus, ha puntato su Mediaset per creare una media company latina capace di contrastare l’avvento di Netflix e l’aggressività dei giganti del web. Una scommessa nata dalla necessità di contrastare due fenomeni che non sembrano sfiorare la Rai. Nonostante il fatto che, complice la riduzione del canone a 90, la tv di Stato preveda sin d’ora un 2017 in rosso.

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