Quando alla mattina vado in studio passo davanti a un negozietto dove si punta a tutti i giochi leciti e controllati dallo stato. E’ sempre pieno e si nota un andirivieni continuo. Persone che non guardano chi entra e non si accorgono di quello che succede ma che, con lo sguardo fisso nel vuoto, sono intente a calcolare mentalmente qualche astrusa formula per vincere. Non si accorgono di quello che avviene attorno a loro ma sono fissi sul gioco che stanno portando avanti.

Il desiderio di vincere, di avere il fato dalla propria parte, “Dio si dovrà accorgere di me”, spinge a giocare per sperimentare se lassù qualcuno mi ama. Voler dimostrare di essere più bravi degli altri, di aver azzeccato la strategia segreta e vincente che consente di capire in anticipo cosa succederà nella slot machine spinge a provare e riprovare per affinare la tecnica fino a renderla perfetta. Il desiderio di avere più denaro, divenire ricchi, milionari, si impadronisce del nostro io per indurci a giocare e rigiocare.

Gli ultimi dati sul gioco d’azzardo dimostrano una crescita continua negli anni, fino alla cifra mostruosa di 95 miliardi di euro. La prima e più grande industria italiana. Non dispongo di dati precisi ma ho letto che circa il 15-20% va allo stato, una parte ai gestori dei giochi e il resto in vincite. Quindi circa 60/70 miliardi di vincite alimentano continuamente le speranze e le illusioni del popolo dei giocatori. Fra il grande numero di giocatori occasionali, stimati in 30 milioni, dall’1 al 3% , secondo statistiche elaborate a Modena, ogni anno cadono nel gioco patologico e divengono dipendenti e assuefatti al gioco compulsivo.

La cosa interessante da un punto di vista psicologico è che tutti, immancabilmente, quando si confrontano con altri o ragionano lontano dai luoghi del gioco sono inconsapevoli dei rischi legati all’abitudine a giocare. Nessuno afferma di aver paura di poter cadere nel vizio ma tutti sono assolutamente convinti di essere capaci di esercitare un’autoregolazione.

La consapevolezza del pericolo è minima ed anzi i giocatori patologici vengono etichettati come malati o incapaci ma certamente diversi da noi. Non sentiamo sintonia ed empatia con loro. Mentre con un malato di una malattia organica ci sentiamo solidali e empatici, perché abbiamo la percezione che quel tumore o patologia cardiaca potrebbe capitare anche a noi, avvertiamo estraneo e irritante il giocatore compulsivo. La colpevolizzazione prevale con definizioni che vanno da ignoranza, incapacità, dabbenaggine, scarsità di autocontrollo.

Ognuno di noi crede di essere padrone del proprio cervello, ma non è vero. Il gioco può colpirci. La ragione è insita nel funzionamento del nostro cervello. Non ci è stata fornita la possibilità di spegnerlo. Non esiste un interruttore che compia un reset o semplicemente stacchi la spina per qualche ora. Il cervello che funziona sempre, notte e giorno, ininterrottamente può divenire una maledizione se qualche pensiero negativo si insinua nella nostra mente. Come fare a scacciarlo? Come allontanare la sofferenza di un ricordo o di un evento che non vorremmo fosse successo?

L’uomo nei millenni ha sempre cercato modalità per spegnere il cervello. Alcol, droghe e gioco sono le risposte più facili da trovare. Quindi ognuno di noi deve essere conscio della propria fragilità e, in consapevolezza di ciò, stare molto alla larga dal gioco e provare empatia con chi soffre di questa dipendenza. A livello sociale dovremmo non tanto proibire il gioco legale ma proibirne la pubblicità e anzi, come avviene sui pacchetti di sigarette, esporre sulle slot machine o nelle ricevitorie pubblicità negative che avvertano sui rischi collegati al gioco.

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