Enti inutili e costosi, carrozzoni burocratici e inefficienti. Ma che resistono, nonostante tutto. Il dibattito sull’abolizione delle Province risale all’assemblea costituente, ha attraversato i decenni ed è ancora acceso. È stato detto tutto e il contrario di tutto. Prova ne è l’ultima uscita a riguardo del ministro per gli Affari regionali Enrico Costa (Ncd): “La mia idea è quella di riproporre il voto popolare, perché è fonte di legittimazione per tutti i consiglieri provinciali”. Ma come? E la legge Delrio? La trasformazione in enti di secondo livello (che non prevedono elezioni dirette)? Nulla, è destino. D’altro canto non sarebbe certo il primo cambio di rotta. La questione dell’abolizione delle Province è stata oggetto di promesse elettorali (disattese), smentite, clamorosi dietrofront e recriminazioni. Al centro dei programmi elettorali di Veltroni, Casini e Berlusconi candidati premier nel 2008, salvo finire nel dimenticatoio dopo la vittoria del Cavaliere sugli altri due. “Si risparmiano solo 200 milioni”, disse il leader del Pdl, dimenticando di colpo quanto detto in campagna elettorale. Mentre Pier Luigi Bersani, che sul punto era sempre stato prudente (“non si può andare avanti a colpi di semplificazione”), nel 2013 inserì “la cancellazione in Costituzione delle Province” al terzo degli otto punti “per un governo di cambiamento”. Come non dimenticare, poi, le parole del ministro Graziano Delrio che, tre anni fa, annunciava: “Credo che sia la volta buona per abolire le Province”.

TRA DETRATTORI E DIFENSORI
A parte qualche timido tentativo di mettere mano alla questione, il dibattito si è riacceso a cavallo tra il secondo governo Prodi e l’ultimo di Berlusconi. Durante la campagna elettorale per il voto anticipato che ne avrebbe sancito la vittoria, il leader del Pdl non solo prometteva l’abolizione delle Province ma, dato che il tema era presente anche nel programma del Pd di Walter Veltroni, annunciava: “Su questo potremmo collaborare”. Sulla stessa lunghezza d’onda l’allora presidente di An Gianfranco Fini: “I carrozzoni non sono intoccabili e si possono abolire. Oppure si possono accorpare competenze amministrative”. Il dibattito era così attuale che qualsiasi argomento poteva fornire l’occasione per ribadire quanto le Province rappresentassero uno spreco di denaro pubblico da impiegare altrove. Così l’allora ministro Antonio Di Pietro (Idv) pensava a reperire “le risorse da destinare alle forze dell’ordine e al personale giudiziario” proprio riducendo i costi della politica e “abolendo enti inutili come le Province e le Comunità montane”. Dopo la vittoria di Berlusconi, però, nulla si mosse. Come fece notare anche il leader dell’Udc Casini: “Un argomento trattato da tutti in campagna elettorale, anche se fino ad ora non si è fatto nulla”.

Non proprio tutti, però, erano a favore della cancellazione tout court. L’allora ministro Bersani sottolineava “l’importante funzione di programmazione” delle La_Russa_675Province. Assolutamente contraria all’abolizione la Lega, intenta più che mai a difendere la gestione di quelle padane. Insomma, non si poteva buttare il bambino con l’acqua sporca. L’allora ministro dell’Interno, Roberto Maroni, proponeva di eliminare “gli enti intermedi fra Comune e Provincia: Comunità Montane, Enti parco, Ato, favorendo semmai i consorzi fra Comuni”. Stessa ricetta per il ministro della Pubblica amministrazione, Renato Brunetta. E mentre Roberto Calderoli sottolineava che “ci sono province e province!”, l’allora ministro della Difesa La Russa (An) invitava invece la Lega a non opporsi alla chiusura di tutte le province, proprio sulla base del principio che non si potesse fare “alcune sì e altre no”. Ma di lì a qualche mese, a giugno 2009, ci sarebbero state proprio le elezioni provinciali.

E bisognava fare i conti con la dura realtà. Le Province significano consenso e sono strategiche sul territorio: l’abolizione poteva anche aspettare. I calcoli La Russa li aveva fatti: “Fra cinque anni, anche perché ora si sta per votare, ma bisogna mettere un paletto preciso con una legge che faccia diventare la legislatura provinciale che inizia nel 2009 una legislatura di passaggio di tutte le deleghe alle Regioni o ai Comuni o alle aree metropolitane”.

IL DIETROFRONT
Secondo gli intenti, quindi, dopo la parentesi del voto bisognava mettere mano alla riforma. D’altro canto Berlusconi in campagna elettorale era stato chiaro. Un calderoli_internaprimo segnale che non si lavorasse esattamente in quella direzione arrivò in autunno, quando il ministro della Semplificazione Calderoli dichiarò che nel programma di governo si parlava di “abolizione non delle inutili province, ma delle province inutili”. Pochi giorni prima, in Commissione Affari Costituzionali, il Carroccio aveva bloccato un tentativo dell’Idv di cancellare le amministrazioni provinciali dalla Costituzione. Il clima era cambiato. Ad aprile 2010 Berlusconi mise la parola fine al dibattito: nessuna abolizione delle Province, ma nessuna nuova Provincia. Il motivo? “Abbiamo fatto un calcolo – spiegò – si risparmiano solo 200 milioni, troppo poco per iniziare una manovra che scontenterebbe i cittadini”. La maggioranza aveva fatto il calcolo sì, ma solo dopo aver incassato il voto dell’elettorato.

Poi ci fu la telenovela della finanziaria 2010 con la soppressione di 10 piccole Province, provvedimento poi stralciato dal testo definitivo per un veto della Lega. Insomma, a fine anno il risultato era evidente: a due anni e mezzo dalle promesse elettorali la questione era allo stallo. Con Fini che accusava: “Le Province non si aboliscono perché la Lega ha voglia di tenerle come ulteriore anello territoriale”. “Berlusconi l’aveva proposto nell’ultima campagna elettorale: una delle tante promesse da marinaio” disse il leader di Sel Nichi Vendola.

BOCCIATA LA PROPOSTA DELL’IDV
Il 5 luglio 2011 la Camera bocciò la proposta dell’Idv (che ci aveva già provato due anni prima con un ddl costituzionale) sull’abolizione delle Province e il Pd si Stavolta Di Pietro sta con l’indagato: “Autospensione ok”astenne, affossando la norma. In quell’occasione anche il Pdl, che si era espresso contro, si divise. Per Di Pietro un “tradimento generalizzato degli impegni e dei programmi elettorali da sinistra a destra”. La risposta di Bersani? “Noi abbiamo la nostra riforma per ridurre le province, ma bisogna ragionare sulle istituzioni e non andare avanti a colpi di semplificazione”. Il giorno dopo, però, arrivò l’affondo di Matteo Renzi, sindaco di Firenze ed ex presidente della Provincia: “Il Pd ha perso un’ottima occasione per dare un segnale al Paese. E mi dispiace molto”. Dopo l’estate, a settembre 2011 venne approvato dal Consiglio dei Ministri il ddl costituzionale del governo ‘Soppressione di enti intermedi’, che prevedeva la cancellazione delle Province. Dopo il via libera del Parlamento, la parola ‘Province’ sarebbe stata cancellata dalla Carta. L’iter si è però interrotto con la crisi del quarto Governo Berlusconi.

L’ERA MONTI E LA BOCCIATURA DELLA CONSULTA
Da fine 2011 il governo Monti ha lavorato a una serie di provvedimenti che sarebbero andati a costituire la riforma. Il cosiddetto Salva-Italia, con cui si abolivano Vittorio Grillii consigli provinciali e si riducevano le competenze, il decreto legge 95/2012 sulla spending review con cui si prevedeva che il numero delle province sarebbe stato dimezzato e altri provvedimenti. Intanto non si parlava più di soppressione, ma di riordino. Criticato da Matteo Renzi: “O si aveva il coraggio di abolire del tutto gli enti provinciali, oppure bisogna trasformarli veramente in enti di secondo livello formati dai sindaci e senza doppi emolumenti”. E se la crisi del governo Monti ha poi bloccato la conversione in legge di un decreto, la pietra tombale l’ha messa una sentenza della Corte Costituzionale, la 220 del 3 luglio 2013, con la quale la Consulta ha dichiarato incostituzionali tutte le disposizioni del Governo Monti. Si avvicinano le elezioni e, a Jobs act, Bersani: “Sul Referendum? libertà di voto”livello nazionale, qualcun altro cambia idea. A due anni dall’astensione alla Camera con cui il Pd aveva affossato la proposta dell’Idv, l’abolizione delle province compare miracolosamente tra gli otto punti programmatici proposti da Bersani.

AI GIORNI NOSTRI
Passano gli anni, si succedono i premier, ma il refrain non cambia. Così si è assistito al discorso di investitura da presidente del Consiglio di Enrico Letta, che ufficializzava la cancellazione definitiva degli enti (senza neppure l’ipotesi di sostituirli con enti di secondo livello) con Daniela Santanché che si affrettava a

ricordare che “l’abolizione delle Province era nel programma del Pdl” (a dire il vero in più di un programma elettorale, solo che lì è rimasta). Dopo Letta, la cancellazione è stata un chiodo fisso sia di Renzi che di Delrio. Che nel 2013, da ministro per gli Affari regionali, ha sentenziato: “Credo che sia la volta buona per abolire le Province”. Un anno dopo la riforma del ministro è diventata legge e Renzi ha festeggiato (forse troppo presto): “Abbiamo abolito le Province, avanti come un rullo compressore”.

Nelle intenzioni dell’esecutivo quelle misure servivano a costruire un ponte in attesa delle riforme costituzionali, ma in realtà l’abolizione non era mai stata tanto lontana. Da parte delle opposizioni (in prima fila Forza Italia) l’approvazione della legge è stata definita ‘golpe’, ‘pasticcio’, ‘imbroglio’, ‘truffa’ perché non avrebbe “cancellato le Province, ma creato poltrone in più”. Non è stato migliore il clima anti-referendum con Calderoli che ci ha (di nuovo) messo del suo: “Per il referendum sulla riforma costituzionale Renzi ha preparato un quesito che sembra un tentativo di circonvenzione dell’elettore”. La riforma prevedeva di eliminare la parola ‘province’ dall’articolo 114 della Costituzione, rimandando a una nuova legge ordinaria il riordino sostanziale. Ma le Province – come ormai accade da 50 anni – hanno assistito alla rottamazione di chi voleva rottamarle. Prima di Renzi, era capitato a Berlusconi, Monti e Letta. E ora c’è chi ha proposto di ripristinare l’elezione diretta di chi le rappresenta. Allora vale proprio tutto.

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