Dopo la creazione del Parco del Colosseo, sarà dunque la volta del Pantheon. La mission è fare cassa. Quei monumenti piuttosto che luoghi simboli della città e del Paese sono quasi un feticcio da esporre. Slot machine a servizio di un’idea di patrimonio culturale improntata al business, contrabbandato per valorizzazione. Così quel che sgomenta non è neppure l’idea che sia necessario, per il ministro, che i luoghi della cultura con maggiore appeal producano proventi. Quel che suscita preoccupazione non è neppure la convinzione che per Franceschini sia ineludibile accrescere gli ingressi con operazioni “spericolate”, come promette di essere l’installazione di una biglietteria al Pantheon.

C’è qualcosa di molto più grave di tutto questo. Ed è l’idea di fondo che i monumenti vadano ingabbiati. Vadano sostanzialmente enucleati dal tessuto cittadino. Diventino parti, evidentemente importanti, ma sostanzialmente accessorie. Insomma Franceschini persegue politiche che sembrano ispirate a un modello di città costituita da aggiunte diverse. Un modello di città nella quale i monumenti “sono chiusi”. Meglio, sono chiusi ogni volta che questo status possa produrre rilevanti risorse.

Del progetto dei Fori, aperti alla città, cerniera nobile tra settori moderni, non si parla più. Ora c’è il Parco del Colosseo. A breve ci sarà la biglietteria per accedere al Pantheon. Operazioni che indubitabilmente regaleranno ingenti risorse (a chi?), ma che priveranno Roma della sua anima. Finiranno per stravolgerla definitivamente, facendone una Venezia “in grande scala”. Una Disneyland nella quale verranno ancora di più turisti, da ogni parte del mondo, ma dalla quale si allontaneranno gli abitanti. Cioè i fruitori di diritto. Una città nella quale le distanze tra centro e periferie diventeranno sempre più incolmabili.

Il motivo? Perché alla mancanza di interventi sui settori più esterni si aggiungeranno le operazioni di parcellizzazione del patrimonio culturale al quale facevo riferimento. Franceschini lascia supporre di non conoscere sufficientemente il ruolo che il patrimonio culturale riveste da sempre per la Città. Ruolo che non è azzardato definire anche “sociale”. La gran parte dei monumenti sui quali è già intervenuto oppure si appresta a farlo sono stati luoghi “vissuti”. Parti a tutti gli effetti del tessuto cittadino. La città è un organismo pubblico per vocazione. E in questo i monumenti dovrebbero essere degli imprescindibili caposaldi. Beni Comuni che lo Stato deve tutelare e rendere fruibili. Non certo alienare, anche se in maniera parziale.

“Tra le tante voci, il vecchio ladro distinse quella argentina di un bimbo che gridava: – Mio! Mio! Come stonava, com’era brutta quella parola, davanti a tanta bellezza. Il vecchio, adesso, lo capiva, e avrebbe voluto dirlo al bambino, avrebbe voluto insegnargli a dire “nostro”, invece che “mio”, ma gli mancarono le forze”. Anche Franceschini come il protagonista de “L’uomo che rubava il Colosseo” di Gianni Rodari non sembra rendersi conto della differenza. Il “nostro” non sembra interessarlo. Preferisce continuare a pensare che i monumenti debbano essere “privati”.

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