Non è ancora andato via. E già mi manca: non tanto per quello che ha fatto, ma per le speranze che aveva suscitato e per i rimpianti che lascia e per la paura di ciò che sta per venirgli dopo. Se la notte proverbialmente porta consiglio, questa volta dall’America porta scompiglio: mentre Obama promette “Resto al vostro fianco da cittadino”, “Non smetterò di servire l’America”, l’intelligence avverte che i russi sarebbero in possesso di informazioni scottanti, anche volgari, su Donald Trump e potrebbero ricattare il presidente eletto.

Tutto finisce dove tutto era cominciato: ‘Yes we can’ è lo slogan che apre la parabola presidenziale di Barack Obama; ‘Yes we can’ è l’atto di speranza che la chiude. Nel mezzo, otto anni talora contraddittori, talora deludenti, raramente esaltanti. Sul palco di Chicago, davanti a 20mila persone che sono la sua gente – molti erano lì anche quella sera del 4 novembre 2008, quando si celebrava una vittoria, lui e Michelle una coppia ancora giovane, Malia e Sasha ancora due bambine -, Barack si commuove: non è la prima volta, forse anzi l’ha fatto troppe volte, cedendo progressivamente all’emotività di fronte all’inanità degli sforzi, contro le armi facili, le uccisioni gratuite, l’ostilità agli immigrati.

L’ultimo messaggio è un invito a non tradire i valori dell’America, a non diventare come la Russia, che è un’autocrazia, o la Cina, che resta una dittatura comunista, a non accettare una società basata sulle discriminazioni, che siano verso i diversi, i neri, gli immigrati, i musulmani. Cita Atticus Finch, l’avvocato dell’Alabama de ‘Il buio oltre la siepe’ di Harper Lee, e dice: “Non capirai mai una persona fino a quando non guardi le cose dal suo punto di vista”. L’avvocato Finch si batte in tribunale per difendere un giovane nero da un’accusa ingiusta, ma prima di tutto dai pregiudizi.

C’è autocritica, nel discorso di Obama: “Abbiamo fatto progressi, ma molto ancora resta da fare”. C’è qualche abbellimento della realtà: “Abbiamo cambiato l’America, che oggi è migliore” (ed elegge Trump?). Ci sono soprattutto moniti a chi resta, a chi gli dà il cambio senza raccoglierne l’eredità, anzi rifiutandola: il terrorismo integralista e il sedicente Stato islamico saranno definitivamente sconfitti “se non tradiremo i nostri valori”; e il cambiamento climatico è una minaccia per le generazioni future, “non le tradiremo solo se non lo negheremo”.

Mentre Barack parla, piange, è acclamato – e con lui, più di lui, la moglie Michelle -, è rimpianto, l’America è di nuovo traversata dal brivido che mettono le ultime indiscrezioni stampa: l’intelligence statunitense saprebbe che i russi hanno informazioni su Trump “scandalose”, che rendono il presidente eletto ricattabile. E’ tutto da verificare, a partire dalla credibilità dell’informatore.

Ma ci sono un sacco d’intelligence e di sospetti in questa lunga velenosa astiosa transizione da Obama a Trump. E a diradare la nebbia dei dubbi non basta l’ennesimo tweet di Trump: “Fake news – detto da uno che se n’intende, ndr -. E’ una caccia alle streghe politica”.

‘The Manchurian candidate’ è un film del 1962 rifatto nel 2004: magari, siamo alla terza edizione, questa stile reality show.

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