La questione dei rimborsi ai risparmiatori truffati è la cartina di tornasole del grado di confusione mentale che affligge il governo del Paese. Quello presieduto da Matteo Renzi che dal 2015 ha assistito impotente all’escalation dei dissesti bancari senza riuscire a proporre nessun intervento organico volto a tutelare il risparmio, imporre trasparenza e ristabilire un clima di fiducia. E quello Gentiloni che – essendo la fotocopia di quello Renzi – sembra fatalmente destinato a riprodurre gli stessi errori. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Nel novembre 2015 quattro banche sono state poste in risoluzione (Popolare Etruria, Banca Marche, CariChieti e CariFerrara), i loro azionisti hanno perso tutto e i detentori di obbligazioni subordinate anche.

Per i soli obbligazionisti, il governo ha istituito un meccanismo di rimborso forfettario automatico all’80% per chi rientrava entro determinati parametri di reddito (inferiore ai 35mila euro nel 2014) o patrimoniali (patrimonio mobiliare inferiore ai 100mila euro). A fianco di questo meccanismo, era prevista anche l’istituzione di una procedura di arbitrato i cui decreti attuativi – attesi fin da luglio 2016 – non sono stati ancora emanati dal ministero del Tesoro. Di lì a poco, è scoppiato il nuovo caso MontePaschi. Dopo aver perso mesi preziosi e aver tentato di convincere i possessori di obbligazioni subordinate a convertirle “volontariamente” in azioni dietro la minaccia del bail-in, lo Stato è stato costretto a intervenire. La banca senese verrà nazionalizzata, le obbligazioni subordinate verranno convertite in azioni, ma in questo caso gli obbligazionisti verranno salvaguardati al 100% a prescindere da quando abbiano acquistato i bond (premiando così anche chi ha speculato negli ultimi mesi) e a prescindere dall’entità del reddito e del patrimonio mobiliare personale.

Che fine fa il principio di uguaglianza? Perché lo Stato usa due pesi e due misure nella tutela dei risparmiatori? Non è solo una questione di numeri e di “peso” politico. Conta anche, se non soprattutto, la totale assenza di una linea nella gestione di queste crisi. Si procede dunque in ordine sparso, un po’ alla carlona, senza la consapevolezza che la mancanza di un approccio chiaro e univoco alla questione genera ulteriore sfiducia con conseguenze potenzialmente pesanti anche su molti altri istituti di credito.

Che si proceda in ordine sparso lo dimostra anche l’iniziativa varata proprio in questi giorni da Veneto Banca e Banca popolare di Vicenza con la proposta di un “ristoro forfettario” agli azionisti che hanno perso praticamente tutto: il 15% (14,4% nel caso di BpVi) in cambio della rinuncia a qualsiasi rivalsa ed anche alla costituzione di parte civile nei vari processi a carico degli ex amministratori e delle stesse banche. Un’inaccettabile “elemosina”, dicono le associazioni dei risparmiatori che invitano i piccoli azionisti a non aderire alla proposta. Certo, il fondo Atlante (fondo che controlla con oltre il 90% Veneto Banca e Popolare Vicenza) non è lo Stato e può proporre a chi vuole quello che vuole. Tuttavia, se l’obiettivo delle due banche  era quello di proporre un nuovo patto ai soci truffati dalle precedenti gestioni (e soprattutto liberarsi di buona parte dei contenziosi), l’effetto è stato piuttosto quello di gettare altra benzina sul fuoco della sfiducia, tanto più alla vigilia di nuovi, indispensabili, aumenti di capitale e senza che nemmeno uno dei responsabili dei dissesti sia stato condannato.

In un sistema che fa ricadere in prima battuta sul risparmio, e poi ancora sui contribuenti, i costi dei salvataggi bancari (oltre a MontePaschi, non si può escludere l’intervento statale  anche in altri casi, tra cui appunto le due banche venete) è grave che non si sia provveduto a individuare un meccanismo unico, valido per tutti, per il ristoro dei danni che pesi soprattutto sulle spalle di chi il danno lo ha prodotto – gli amministratori e i dirigenti delle banche ed anche i cosiddetti “grandi debitori” – applicando anche ai reati finanziari le norme sulla confisca e il sequestro di beni che già si applicano per i reati di mafia. E’ grave anche che nel 2016, dopo gli scandali che abbiamo vissuto, le inchieste sui reati finanziari siano ancora condotte a livello locale dalle singole procure che spesso non hanno né i mezzi, né l’esperienza per condurre in porto indagini tanto complesse, per non parlare dei rischi di condizionamento. Quello che occorrerebbe, e in tempi rapidi, è l’istituzione di una procura nazionale sul modello di quella Antimafia.

Quanto alla trasparenza, il tema non può toccare le banche solo nel momento in cui interviene lo Stato con la nazionalizzazione o altre forme di garanzia, ma si pone per tutti i casi di dissesto, a partire dalle quattro banche finite in risoluzione nel 2015. Una trasparenza che non riguarda solo gli elenchi dei grandi debitori, ma anche ad esempio la stessa procedura di risoluzione. Per tre delle quattro banche (Etruria, Marche e CariChieti) Ubi sta per formalizzare la proposta d’acquisto (lo farà nel consiglio d’amministrazione in programma l’11 gennaio) dopo che è scaduto il termine per presentare delle offerte “in extremis”, un passaggio imposto dalla Ue per assicurarsi che il processo di vendita abbia rispettato i criteri della concorrenza. Questo perché la proposta di acquisto che Ubi ha negoziato in questi mesi, con l’acquisto a un prezzo simbolico, è parsa peggiorativa rispetto alle manifestazioni d’interesse presentate la scorsa estate da alcuni fondi e sdegnosamente respinte come “irricevibili” dal Fondo di risoluzione della Banca d’Italia che ha attualmente in carico le quattro banche. Così si è resa necessaria una foglia di fico prima di formalizzare il passaggio delle tre banche a Ubi. Quanto alla quarta banca, CariFerrara, ancora non si sa che fine farà, anche se sembra ci sia un labile interesse di Bper. Certo, poteva andare persino peggio di così, ma a procedura chiusa sarebbe opportuno che venissero rese pubbliche tutte le carte e che si facesse una seria analisi di ciò che non ha funzionato senza cercare per una volta di scaricare la colpa su Bruxelles.

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