Due anni fa ero a Modena per il Festival di Filosofia. Poco prima del mio intervento, una ragazza in uno stato esagitato mi pregava di dirle dove avrebbe potuto assistere alla conferenza di Zygmunt Bauman. Le dissi che, come per le grandi rockstar, era stato previsto un tendone che ritrasmetteva la sua conferenza via video, ma lei non era soddisfatta: voleva vederlo dal vero, toccarlo, sentire la voce del sociologo polacco novantenne scomparso proprio all’inizio di questo nuovo anno.

La cosa mi aveva messa piuttosto di buon umore. Il fatto che un sociologo polacco novantenne post-marxista suscitasse l’eccitazione di una giovane studentessa che non stava più nella pelle all’idea di poterlo vedere dal vivo mi faceva ben sperare sul destino della cultura nella nostra società individualista e consumista che proprio Bauman aveva definito liquida.

Zygmunt Bauman è morto a novantun anni dopo una vita di impegno politico, resistenza, fuga, conversione e continuo e perenne adattamento al liquefarsi della società moderna e post-moderna.

Ebreo polacco fuggito alla Shoah, si rifugiò in Unione Sovietica dove si avvicinò al pensiero marxista. Rientrato in Polonia, studia filosofia e sociologia, prima che la disciplina venga eliminata dall’università di Varsavia perché troppo “borghese”. Dopo una serie di cariche ufficiali nel partito in Polonia, Bauman comincia ad essere visto con sospetto, soprattutto per la sua resistenza all’influenza russa in Polonia. Infine espulso nel 1968, se ne va prima in Israele, poi in Inghilterra dove resterà fino alla fine della sua vita.

Dai primi studi marxisti, in particolare sul movimento socialista britannico, alle influenze della sociologia fenomenologica di Simmel e Schutz e del nostro Gramsci, Bauman approda durante gli anni della caduta del muro di Berlino a una nuova visione della post-modernità. Se la modernità per Bauman è caratterizzata da una riduzione della libertà in favore della sicurezza, ossia da una società del controllo, la post-modernità è liquida e per questo scappa al controllo centrale, cosa che rende pazzi di rabbia i governanti.

I cittadini trasformati in consumatori invece che in produttori sfuggono a qualsiasi classificazione sociale (a differenza dei pensatori dell’egemonia, come lo stesso Gramsci, che pensano che tutti i nostri desideri nella società dei consumi siano controllati dal potere). I cittadini liquidi hanno desideri liquidi, paure liquide, passioni liquide, ossia non inquadrabili dall’establishment. Più persi ma anche più liberi, vagano in un mondo selvaggio, alla Blade Runner in cui l’unica guida è il proprio piacere, ma nel loro vagare post-ideologico sfuggono al potere che cerca disperatamente nuovi strumenti di controllo, dalla censura su Internet, al controllo della privacy, al marketing online.

Aperto fino all’ultimo all’accoglienza dei migranti, tra le più belle pagine di Bauman vi sono quelle dedicate all’ambivalenza nei confronti dello straniero, portatore di esotismo (l’accoglienza di cucine esotiche, riti religiosi, yoga e altre pratiche) e insieme di contagio, di minaccia. Proprio su questa ambivalenza le società liquide rischiano di risolidificarsi in inutili ideologie populiste se non sanno accettare l’alterità e l’unicità delle traiettorie individuali che portano ognuno di noi a cercarsi dove non ci si può più trovare. 

Con Bauman scompare un altro grande maestro del Novecento, un pensatore libero e liquido che ha fatto della sua vita e del suo pensiero un esempio di impegno e libertà.  

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