di Francesco Bochicchio

Nei miei trent’anni di lavoratore dipendente, ho sempre inteso che il patto implicito tra me ed il mio datore di lavoro fosse questo: io faccio quello che mi dici tu e rinuncio a tutti i proventi del mio lavoro, in cambio tu mi garantisci un reddito fisso e la continuità del lavoro. Ora sembra che questo patto, a causa della concorrenza globale, sia diventato troppo oneroso per le aziende italiane e che il lavoro debba essere per forza precarizzato per avere flessibilità e libertà di manovra necessarie a restare competitivi. Almeno, questo è quello che dicono i nostri capitani (o caporali?) di industria e il governo che li sostiene.

Molti altri – in testa quelli che hanno promosso il referendum per l’abolizione del Jobs Act – pensano che siano tutte balle di una classe imprenditoriale troppo coccolata dallo Stato, incapace di proporre qualità – come fanno in Francia e Germania – e costretta a competere con cinesi ed indiani sui costi dei prodotti, battaglia chiaramente persa in partenza, dato che nei paesi emergenti il costo del lavoro è una minuscola frazione di quello dei paesi sviluppati e resterà tale per il prossimo futuro.

Ma ammettiamo che una certa flessibilità del lavoro sia necessaria, e che davvero occorra, per la sopravvivenza di quello che resta del sistema industriale italiano, rivedere il patto tra i dipendenti e datori di lavoro. Chi deve pagare i costi di questa trasformazione? Certo, non il lavoratore dipendente che si trova improvvisamente privo di una certezza retributiva e – conseguenza importantissima – privo dell’accesso al credito del sistema bancario, per molti unico strumento per programmare il futuro proprio e quella della famiglia. Al contrario il costo di una eventuale precarizzazione del lavoro andrebbe distribuito in primis sul sistema industriale in toto e, in seconda battuta, sulla fiscalità generale.

Bisognerebbe dare nuova dignità alla figura lavorativa del lavoratore a tempo determinato, fornendogli ad esempio:
– un reddito di dignità per i periodi di inattività, eventualmente ottenuto anche accantonando parte delle imposte da lui versate durante il periodo di lavoro;
– una garanzia di accesso al credito, sia che stia lavorando sia che non abbia le risorse;
– una continuità contributiva dei versamenti pensionistici, in modo che anche lui, come noialtri più fortunati, possa ritirarsi dignitosamente a fine carriera.
– un mezzo efficace per cercare nuovo lavoro, prima che si ritrovi disoccupato.

Senza queste compensazioni, qualunque proposta di precarizzazione del lavoro si può tradurre con una sola parola: schiavismo.

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