Genova per noi. Nella terra di De Andrè, Lauzi e Fossati, a cavallo tra Paolo Villaggio e Natalino Otto, negli ultimi giorni dell’anno appena passato ti potevi imbattere in un funambolo che sovrastava, con i suoi passi semplici e soffici, il Palazzo Ducale immerso tra i nudi in bianco e nero di Helmut Newton e il coloratissimo pop di Andy Warhol o esplorare le acrobazie del festival Circumnavigando o perderti nella favola del Candido del Teatro della Tosse.

Genova pulsa come un cuore vivace, come la brezza che arriva e punge dal mare, le sue scritte, i suoi disegni, tra ironia feroce e protesta sociale vibrante, danno un senso frizzante e un segno forte, graffiano con il sorriso a tratti amaro, scivolando nei caruggi al sapor di acciughe e lingue d’ogni dove.

Gran bella scoperta, all’interno del programma del Circumnavigando, ideato da Boris Vecchio, il Landscape della compagnia francese La Migration, una parentesi sospesa di attese e rilanci, di cadute e parabole. Due ottimi atleti-performer hanno corso, lottato, girovagato attorno, sopra e sotto a una grande struttura metallica che rimandava a una piattaforma petrolifera come alla Torre Eiffel (dopotutto i due bravissimi, coordinati e giovani interpreti sono transalpini), a un gigantesco arco come a un’altalena ciclopica, una ghigliottina o un immenso pelapatate.

Quest’ammasso di ferro e acciaio (un’armatura che da sola, per il suo impatto visivo, fa drammaturgia soltanto con il suo esserci e stare ingombrante), confezionata di pistoni in mostra e ammortizzatori in bella evidenza, con il suo carico di macchinerie e futurismo, quasi una torre di un pozzo per l’estrazione dell’oro nero o una navicella spaziale, è un gioco sul quale dondolarsi, arrampicarsi, flettere, buttarsi in picchiata come gabbiani sul mare pescoso o come appesi a un deltaplano a gravitare sulle nuvole. Ci ha ricordato, come impianto e attrezzatura, il Celui qui tombe di Yoann Bourgeois, che abbiamo visto al Tanz im August di Berlino.

I due si scambiano, saltano sopra questa traversa e s’incollano alla corda, ne discendono con movimenti felini e scimmieschi, nei loro passaggi armoniosi, o se ne stanno, in attesa dell’attimo giusto per catapultarsi giù, come i passeri sui fili dell’alta tensione nel mezzo alla Pianura Padana. I passaggi, come trapezisti su questa grande fune che rotea a semicerchio, sembrano scandire il tempo come una clessidra o, quando se ne stanno seduti sopra, come i pappagalli Ara sul trespolo, ci portano alla mente quelle vecchie fotografie d’inizio del secolo scorso con gli operai seduti a centinaia di metri d’altezza intenti nella costruzione dei grattacieli americani.

E’ tutto uno spostamento di pesi e contrappesi, come in una giungla ancestrale, a bilanciarsi, alzarsi e abbassarsi, prendere la presa e spingersi e fermarsi, camminare in equilibrio perfetto, rimanere ancorati e aperti come l’Uomo Vitruviano e di nuovo correre in picchiata e risalire la corrente tra il pesante e la levità, tra la caduta che schiaccia verso terra e la leggerezza che s’alza in volo, tra la forza di gravità che porta al suolo e il volo che spicca al cielo.

Arrivano quest’anno i dieci anni dalla scomparsa di Emanuele Luzzati, molto più che anima della Tosse genovese. I suoi disegni sono vita allo stato puro, gioia espansa che sprizzano e spruzzano colori e sentimenti. Quanto bisogno avremo oggi degli insegnamenti del Candido voltairiano (in scena al Teatro della Tosse dal 17 al 21 gennaio, per la regia vivida di Emanuele Conte), non il buonismo di maniera ma quell’ottimismo mai sciocco né superficiale, quella fiducia nell’altro, nel nuovo, nel domani.

Il rapporto tra Candido e Luzzati è intenso, lungo e profondo e si spinge fino alle illustrazioni del ’44, per Nuages nel ’90 e infine nel ’94 nella versione di Leonard Bernstein. Il “migliore dei mondi possibili” fa sorridere e riflettere, tra costumi, marionette, burattini, è tutto un susseguirsi di scatole cinesi magiche dalle quali spuntano personaggi (su tutti Enrico Campanati, ma anche di contorno a dare sostanza e verve Enrico Pittaluga e Graziano Sirressi) e storie come matrioske che si autoalimentano, nascono come fumetti in un impasto intrecciato tra attori, pupi e video.

Allegorie allegre, scontri e duelli, viaggi e carnevali, le ombre gigantesche e le danze sfarzose, le gonne voluminose e le maschere appuntite: “Genova, dicevo, è un’idea come un’altra, ma quella faccia un po’ così, quell’espressione un po’ così che abbiamo noi mentre guardiamo Genova, e ogni volta l’annusiamo e circospetti ci muoviamo, un po’ randagi ci sentiamo”.

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