Fece ritorno al villaggio di mattina, dopo quarantatrè anni, tanto presto che la prima cosa che incontrò fu il giovedì, fresco e roseo, riflesso nel Rìo Magdalena. Il funerale si sarebbe svolto nel pomeriggio, alla Iglesia de la Concepciòn, sotto i ventilatori appesi alle colonne, nella piena del calore, per poi terminare, come il più delle cose e delle storie di questo mondo, al bellissimo Cementerio de Mompox.

Manuel Vicente lo conobbi in un ristorante che si chiama “Nonna Beatrice”, la sera stessa della sua ripartenza, il giorno seguente al funerale. Era al tavolino accanto al mio, nel dehor sulla stessa plaza de la Concepciòn dove si affaccia la chiesa, e l’aria elegante ma al contempo sportiva me lo aveva fatto apparire simpatico, anche se pensieroso, e solo. Attaccò lui, dopo avermi sentito chiedere una bottiglia d’acqua alla cameriera, domandandomi di quale angolo di mondo fossi. E così, dopo i suoi tre mojito e la mia acqua seguita da un rum di una qualche piantagione dello sterminato Caribe che ci circondava, smisi lentamente di parlare, perché capii che le storie erano le sue, e la malinconia, e la chiusura di un cerchio, e in qualche modo un’urgenza.

Suo padre non lo aveva più rivisto, da allora, e non avrebbe ormai fatto in tempo a chiedergli di raccontargli nuovamente quelle storie di quando era bambino, palesemente inventate, che così allegramente, e dolcemente, gli avevano costruito l’infanzia. Partì proprio da lì il suo ricordo, da quei racconti. Sembrava pensare a voce alta, in un primo momento, poi mi disse di vivere a Medellìn, da oltre trent’anni, dopo essere stato a Bogotà e a Cali. Mi raccontò di quando faceva il tassista e di quando invece cambiò tutto, un’altra volta, e mise in piedi una piccolissima agenzia di turismo, quella nella quale lavora ancora.

“Che cos’erano quelle storie, quelle che ti raccontava tuo padre?”, gli chiesi, maledettamente incuriosito. Mi guardò e si mise a ridere, poi abbassò gli occhi sul bicchiere col ghiaccio sciolto e i rimasugli verdi delle foglie, e mi disse che ce n’era una che gli chiedeva sempre, non sa più quante volte, di ripetergli. Era la sua preferita. Era una vicenda reale, ma che non potevano aver vissuto, per motivi storici, eppure quando lui era bambino queste cose non gli interessavano, e tutto quello che voleva era “vedere” le cose, mi disse, le parole che uscivano dal racconto. Insomma… a Medellìn c’è una cattedrale che si chiama Candelaria, all’interno della quale si trova un maestoso organo a canne, altissime, costruito in Germania, non ricorda più ma almeno due secoli fa, e che per farlo arrivare a destinazione, nell’intricato e infinito viaggio necessario, venne fatto navigare per giorni sul Rìo Magdalena, il fiume che stava dietro di noi, e poi trasportato a dorso di cavalli.

Una storia spettacolare, non c’è che dire. Doveva essere stato un viaggio epico trasportare un organo grande quanto mezza nave, dalla Germania a Medellìn, due secoli fa! Ecco, precisò, suo padre, nelle sere dell’eterna e umida estate di Mompox degli anni 70, raccontava a Manuel che suo padre, ovvero il nonno, aveva assistito al transito della chiatta con sopra l’organo, le cui canne superavano in altezza le torri di tutte le chiese del villaggio, e che da quando era comparso a monte a quando era scomparso a valle, erano trascorsi quattro giorni, e che lui, il nonno, tornava a casa solo per mangiare e dormire e poi ritornava sulla riva per assistere all’evento, al transito di una cosa più grande di un paese, sopra un fiume!

Mentre parlava mi accorsi di sorridere e d’essermi illuminato, quando gli dissi che… bé, ci avrei creduto anche io! Scoppiammo a ridere, e quando la sua bella voce baritonale si raggomitolò, mi disse che aveva fatto un paio di ricerche e che è tutto vero, anche se non sa per quale motivo decisero di far transitare quel gigante sul Magdalena, ma che quello che era sicuro era che suo nonno non poteva certo averlo visto, e che però quelle storie, ancora oggi, per lui, sono vere quanto quelle che gli sono accadute nella vita, e che quella potenza è spettacolare, ed è lì, intatta!

“Sai una cosa?”, mi disse ancora, “ogni tanto vado in quella chiesa, in città, e mi fermo qualche minuto. Guardo l’organo e mi viene da ridere e da piangere, e poi di nuovo da piangere e da ridere come un pazzo, ogni volta!”. “Come mai non sei più tornato a Mompox, in tutti questi anni?”, provai a domandargli timidamente: “Perché la mia infanzia non è stata solamente storie spettacolari e magnifiche, ma tante tante altre cose, e povertà, e violenza, e giornate intere di silenzio. E allora, vedi… per proteggere la propria giovinezza, e i propri racconti, a volte è bene chiudere tutto, per sempre. E’ duro ma non ci si sporca più, non te ne dimentichi più, e riesci ancora a sorridere, tutta una vita dopo, come stiamo facendo adesso, per quelle parole che vedevi volare, per un organo su di un fiume e a dorso di cavallo… per quello che è stato ed è giusto che non sia più. A volte le cose giuste non sono belle, ma fanno bene. Questa è una di quelle”.

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