Al numero 10 di rue Nicolas-Appert a Parigi, quando è il 7 di gennaio il freddo entra fin sotto i cappotti. La strada è quasi deserta e i curiosi che girano l’angolo passano oltre cercando di farsi notare il meno possibile. Davanti alla porta che fu del settimanale satirico Charlie Hebdo c’è una targa con i nomi dei 12 morti dell’attentato del gennaio 2015. Tra loro alcuni, più degli altri, fanno rumore: Charb, Wolinski, Cabu, Tignous, Honoré. Appoggiati sul marciapiede due mazzi di rose bianche. Li hanno portati il sindaco Anne Hidalgo e il ministro dell’Interno Bruno Le Roux per una commemorazione durata il tempo di un minuto di silenzio a testa passa e di una stretta di mano. A osservare quel corteo funebre male organizzato, i murales dei volti dei morti. Nessuna didascalia, solo una frase: “Non ho niente da perdere. Preferisco morire in piedi che vivere in ginocchio”. E’ una citazione dell’ex direttore Charb, quella stessa che dopo l’attacco i manifestanti di tutto il mondo hanno gridato in segno di solidarietà. Nel giorno del ricordo, nessuno la legge ad alta voce.

Parigi due anni dopo la strage dei fratelli Kouachi ricorda disorientata l’inizio di quella che il presidente François Hollande ha definito “una guerra”. E’ l’anniversario più difficile di tutti perché, invece di unire la Francia, continua a dividere. Erano le 11.30 di una mattina di inverno del 2015 è due uomini con il kalashnikov hanno decimato la squadra del giornale che poco prima aveva pubblicato una vignetta sul leader dello Stato Islamico Abu Bakhr Al-Baghdadi. Quattro giorni dopo le strade di Parigi e di tutte le capitali del mondo si riempivano di persone al grido di “Je suis Charlie” per difendere la libertà di espressione. La sfilata dei capi di Stato europei, stretti l’uno all’altro, sembrava l’inizio di una resistenza mai vista prima. Niente di tutto questo. Pochi mesi dopo, il 13 novembre, Parigi è stata travolta da nuovi attacchi che hanno provocato 130 morti e centinaia di feriti. Poi ci sono stati gli attentati di Bruxelles e Nizza. E infine Berlino. Di quello spirito di unità è rimasto uno stato d’emergenza permanente e una redazione costretta a lavorare in un bunker segreto. “Come sei Charlie”, è la battuta amara che dicono a mezza voce i più giovani. Sta a indicare una reazione plateale “che dà speranza e che fa fare bella figura in rete”, ma che ormai suona così finta da sembrare un’offesa.

“Come sei Charlie” sta a indicare una reazione plateale “che dà speranza e che fa fare bella figura in rete”, ma che ormai suona così finta da sembrare un’offesa

Passata l’emozione e dimenticate le foto delle strade piene di gente, il giornale satirico ha dovuto fare i conti con l’accusa di aver superato il limite in una difesa senza attenuanti della laicità che avrebbe messo in pericolo il Paese. La reazione delle vittime arriva direttamente dalla colonne di Charlie Hebdo. Il numero speciale per gli anniversari ha una copertina rosso sangue con l’immagine di un kalashnikov puntato su un uomo terrorizzato e la scritta “la fine del tunnel”. Seguono sedici pagine di dolore e rabbia. L’oggetto dell’attacco dei giornalisti questa volta ha poco a vedere con l’Islam e i terroristi, ma è in casa loro: “Quella sinistra che si è sempre sdraiata davanti ai potenti”, titola l’articolo centrale a firma di Fabrice Nicolino. La critica è a esponenti politici e giornalisti che in questi mesi hanno condannato la satira del settimanale. A spaventare di più i sopravvissuti della redazione non sono le parole del Front National o dei conservatori della destra francese, ma piuttosto i “compagni” che non si sono schierati al loro fianco. Così il settimanale attacca la sinistra: “Voi, i piagnucoloni, che avete sputato su Charlie per mostrarvi spiriti buoni, ecco la vostra storia”. Si parte dalle coperture a Stalin fino ai silenzi sulle repressioni di Fidel Castro e al “terzomondismo degli anni ’60 che ha portato a difendere i regimi più atroci (ad esempio quello di Mao). Secondo gli autori di Charlie Hebdo, l’atteggiamento di omertà è da paragonare a quello dei pensatori che ora li mettono sotto accusa. “Per il motivo grottesco secondo cui l’Islam è la religione dei poveri, saremmo quindi diventati un giornale a nostra volta razzista”. E quindi la conclusione: “Sono cretini questi intellettuali? Cento volte sì. Quando succede un attentato contro la libertà di tutti, chiudono gli occhi dicendo che bisogna difendere i poveri. Vergogna su di voi che parlate a vuoto e sarete i primi a fuggire quando tutto questo finirà male”.

A spaventare di più i sopravvissuti non sono le parole del Front National, ma piuttosto i “compagni” che non si sono schierati al loro fianco

L’elenco di chi ha fatto fatica a schierarsi con Charlie Hebdo dopo lo choc iniziale degli attentati è lungo. Comincia con il fondatore del Fn Jean-Marie Le Pen e i suoi e finisce con alcuni esponenti del mondo musulmano. In quest’ultimo caso, come rivendicano i giornalisti del settimanale satirico, l’affermazione è fuorviante: tanti francesi di seconda o terza generazione che credono nell’Islam sono scesi in piazza in difesa delle vignette contestate. C’è però un mondo delle banlieue, raccontato rigorosamente sotto anonimato, dove il motto ”je ne suis pas Charlie” si è diffuso in parallelo agli slogan di solidarietà. Le perplessità non sono mancate però anche tra gli intellettuali ritenuti di sinistra. I primi ad avere il coraggio di dirlo ad alta voce sono comparsi poco dopo gli attacchi e il giornalista Nicolino li ricorda uno a uno nella sua analisi. C’è stato ad esempio lo storico Emmanuel Todd che ha firmato il saggio “Chi è Charlie” e che in un’intervista al Nouvel Obs ha dichiarato: “Per la prima volta nella mia vita non sono stato fiero di essere francese”. E ha aggiunto: “Bisogna andare oltre le menzogne e la credenza che caricaturare le religioni degli altri sia un diritto e addirittura un dovere”. Ancora prima l’editorialista Serge Halimi su Le Monde Diplomatique di febbraio aveva scritto: “Nel 2015 in Francia un vignettista è libero di disegnare il profeta Maometto? Un musulmano di portare il burqa?”. Un’equiparazione tra i due casi che è bastata per indignare i giornalisti di Charlie Hebdo. C’è stato poi il sociologo Pierre Rimbert che si è interrogato sull’essere o non essere Charlie dopo gli attentati e ha citato il caso del giocatore di calcio del Montpellier, Abdelhamid El-Kaoutari, che si è rifiutato di indossare la maglietta con la frase in segno di solidarietà. L’esperto ha quindi lasciato aperta la possibilità di scegliere il proprio schieramento, e questo è stato visto come un tradimento. Sotto accusa anche il giornalista di Mediapart Edwy Plenel che ha definito i musulmani “capri espiatori di società in crisi”. O la collega Aude Lancelin che ha parlato di “operazioni intellettuali con la copertura della difesa della laicità”.

Il dibattito resta nascosto nelle pagine interne dei giornali, mentre i politici che si affacciano alle elezioni presidenziali della prossima primavera preferiscono fare finta di niente

Il dibattito resta nascosto nelle pagine interne dei giornali, mentre i politici che si affacciano alle elezioni presidenziali della prossima primavera preferiscono fare finta di niente. Nel silenzio di queste ore è intervenuta l’associazione Reporters sans frontières: “I vignettisti continuano a subire pressioni politiche, religiose o economiche”, si legge in una nota di solidarietà per un mestiere “chiaramente minacciato”. Secondo il direttore di Charlie Hebdo Riss, quello che è successo il 7 gennaio 2015 è un crimine politico, troppo in fretta dimenticato e delegittimato dall’opinione pubblica. “Le vittime di quel giorno”, ha scritto nel suo ultimo editoriale, “non hanno sufficientemente rivendicato le ragioni della loro sofferenza”. E così, due anni dopo, di quei milioni di persone nelle strade per difendere la libertà di stampa restano due mazzi di rose bianche abbandonati ai bordi del marciapiede.

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