Avrebbe potuto mettersi in disparte, dedicarsi alla sua vita. Ha scelto invece di portare avanti una battaglia, quella per il diritto all’eutanasia, che era di suo marito e che è ancora quella di molti malati. E oggi, a dieci anni esatti dalla morte di Piergiorgio Welby, il desiderio più grande di Mina Welby, presidente dell’Associazione Luca Coscioni, è sempre lo stesso: “Avere nel minor tempo possibile una legge che si faccia carico di tutte le richieste dei malati, ma davvero tutte”. Era il 20 dicembre del 2006 quando Welby, da tempo costretto immobile su un letto a causa della distrofia muscolare, ottenne da un medico l’aiuto a staccare il respiratore. Una vicenda la sua che diede il via a un dibattito, non solo politico, sul fine vita e sull’accanimento terapeutico, ma senza un risultato sul piano legislativo. Anche di questo si parlerà, martedì 20 alle 14.30, alla Camera, in un incontro intitolato “Welby, 10 anni dopo. Una lotta che porta nuove libertà”.

Sono trascorsi dieci anni dalla morte di suo marito.
Anni che ho passato a seguire “la sua direttiva”, se così posso definirla. Lui all’epoca mi disse “Vai avanti”. Ma io non capivo cosa avrei potuto fare. Lui insistette: “Ora non capisci, ma dopo capirai”.

E andò davvero così?
Sì, giorno per giorno ho cominciato a capire. L’ho fatto quando sono arrivate le richieste delle associazioni e dei singoli cittadini che mi facevano domande: ho compreso che dovevo parlare della nostra vita, che così avrei potuto aiutare a portare avanti la sua volontà. Oggi sono soddisfatta di alcune cose, perché abbiamo molti comuni che hanno ideato i registri per i testamenti biologici e in diverse regioni si sta cercando di fare delle delibere su questo tema. E presto sarà anche discussa una legge sul testamento biologico.

Quindi dei passi avanti sono stati fatti?
Assolutamente sì. Anche da parte della società. Ora le persone che prima mi dicevano che avrei dovuto aiutare Piergiorgio a vivere, hanno capito. Si sono confrontate con chi ha avuto esperienze simili alla mia, hanno visto la sofferenza, e hanno compreso che a volte non c’è altro da fare che accompagnare una persone verso l’ultimo passo.

La società è pronta a una legge sull’eutanasia?
Sì, perché in dieci anni gli italiani hanno cambiato il loro modo di vedere. Dobbiamo anche pensare che oggi quasi non esiste famiglia che non abbia vissuto al proprio interno un caso di grave malattia.

Però a oggi una legge ancora non c’è. Quali sono stati gli ostacoli più grandi?
Gli ostacoli sono arrivati da più parti. Dai medici, che dovrebbero essere più formati sull’argomento, ma anche dalla politica che è stata troppo paurosa. E non parlo solo dei religiosi, ma anche dei laici. Molti dicono “la vita è tutto”. Ma la vita non è solo respirare, digerire, avere il sangue che circola. Quando non c’è una vita di relazioni, il deficit è troppo grande. E allora è importante dare un aiuto a terminare al sofferenza di una persona, quando è lei stessa che te lo chiede. E credo che su questo i parlamentari debbano e possano legiferare.

Quando, secondo lei, si riuscirà ad avere una legge sul fine vita? Quella di iniziativa popolare, depositata dall’Associazione Luca Coscioni nel 2013 e di cui lei è prima firmataria, è arrivata a marzo di quest’anno in Commissione Giustizia e Affari sociali della Camera.
L’iter sarà lungo e la strada in salita. Bisognerà attendere ancora, ma non saprei dire quando. Io vorrei che la politica non entrasse tra il medico e il paziente, perché il medico ha il suo codice deontologico, il paziente ha il suo diritto a non soffrire, e avere una cura e una morte dignitose.

In dieci anni ha mai pensato di abbandonare la sua battaglia? Che fosse inutile?
No, mai. Ricordo che una volta Piergiorgio mi scrisse sul computer: “Ho paura che il nostro amore finisca in tragedia. Tu non mi capisci più. Non mi devi abbandonare, devi pensare a cosa voglio io”. Sentiva che io lo stavo trattenendo. Così ho fatto uno sforzo interiore e ho fatto finta di non volerlo trattenere in questo mondo. Fino agli ultimi tre giorni, quando mi sono fatta carico di ciò che davvero voleva e ho smesso di fingere. Ma io l’avrei curato ancora 100 anni. Quando è morto non ho pianto, mi sono sentita quasi sollevata.

Quando ha pianto per la prima volta?
Il 22 dicembre. Dopo un’intervista con i giornalisti. Mi chiesi: “Ho fatto davvero la cosa giusta?”. Sì, feci davvero la cosa giusta.

Quindi rifarebbe tutto allo stesso modo?
Sì, senza ombra di dubbio.

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