di Bruno Laudi*

Dopo le riforme del sistema previdenziale italiano, recuperare il Trattamento di fine rapporto (Tfr) – che spesso costituisce anche un’ancora di salvezza per chi perde il posto di lavoro, magari dopo un periodo di insolvenza del datore di lavoro – è diventato sempre più difficile per i lavoratori.

Infatti, con la finanziaria del 2007, il dipendente di un’azienda con oltre 50 lavoratori è obbligato a usufruire di un sistema previdenziale integrativo, che si affianca a quello di competenza dell’Inps e che prevede: o l’accantonamento delle quote di tfr presso i fondi previdenziali previsti dalla contrattazione collettiva o presso il Fondo di Tesoreria gestito sempre dall’Inps.

L’ulteriore novità della riforma è rappresentata dal fatto che la cosiddetta provvista è costituita, in gran parte, dalla quota di trattamento di fine rapporto del lavoratore accantonata dal datore si lavoro e, in parte, da una percentuale (minima) trattenuta dalla retribuzione maturata, con un’aggiunta di una quota a esclusivo carico del datore di lavoro.

Con riguardo alle modalità di erogazione del tfr, alla cessazione del rapporto, il Fondo di Tesoreria dovrebbe provvedere al pagamento sulla base delle quote maturate dal lavoratore a decorrere dal 1 gennaio 2007 o dalla data di inizio del rapporto, se successiva.

La liquidazione della prestazione è effettuata direttamente dal datore di lavoro; tuttavia, trattandosi di un debito dell’Istituto – che nel tempo ha incassato le quote – il datore di lavoro semplicemente anticipa l’importo, che poi viene conguagliato, ossia compensato, con quelli dovuti a titolo di contribuzione per i lavoratori rimasti dipendenti.

Vi sono casi però in cui il datore di lavoro non provvede a corrispondere direttamente il tfr al lavoratore, ovvero:

1) quando non ha debiti per oneri previdenziali nei confronti dell’Inps e, quindi, non può attuare la compensazione;

2) nel caso di insolvenza del datore di lavoro.

In queste due ipotesi, il pagamento del tfr viene direttamente effettuato dall’Inps, ma solo ed esclusivamente se vi è una specifica dichiarazione del datore di lavoro che (mediante un’apposita modulistica) comunica via pec (posta elettronica certificata) all’Inps l’impossibilità di anticipare al lavoratore il tfr. Il problema è che spesso il datore di lavoro non provvede neppure a effettuare tale dichiarazione e l’Istituto, per questa ragione, nega ai lavoratori il pagamento del tfr.

Se poi l’Inps rileva che il datore di lavoro non ha versato al Fondo le somme accantonate, pur avendole trattenute, l’Istituto provvede al pagamento diretto solo se il datore di lavoro ha provveduto alla regolare denuncia contributiva, che invece spesso non viene fatta: anche in questo caso viene negata l’immediata corresponsione del tfr per l’inattività del datore di lavoro e i lavoratori, pur avendo pienamente maturato il diritto, non riescono ad avere un’immediata soddisfazione dei propri crediti.

Analoga situazione di rifiuto da parte dell’Inps, si verifica infine quando all’Istituto risulta, sulla base della (falsa) dichiarazione effettuata dal datore di lavoro per beneficiare della compensazione sul debito previdenziale, che il credito del tfr è stato regolarmente corrisposto al lavoratore. In questo caso l’Inps “fidandosi” della dichiarazione del datore di lavoro non effettua il pagamento, affermando che il tfr è già stato corrisposto.

Per riuscire a ottenere il pagamento da parte del Fondo il lavoratore dovrebbe effettuare una denuncia all’Inps che poi procederà all’ispezione – i cui tempi non sono stimabili – per accertare il mancato pagamento del tfr ed effettuare il recupero delle quote non versate. In tutti questi casi il lavoratore è costretto ad affrontare una costosa azione per recuperare il proprio credito nei confronti dell’Inps.

Insomma il tfr non è più una certezza, e viene riconosciuto solo se il datore di lavoro ha versato le quote e comunque nei limiti dei versamenti effettivamente corrisposti. Il tutto in spregio a un principio previsto da una direttiva comunitaria degli anni ’80 e recepita tardivamente dallo Stato Italiano che stabilisce una garanzia a carico della collettività per consentire ai lavoratori, vittime di datori di lavoro insolventi, di incassare il proprio tfr.

I Giudici si sono pronunciati sulla questione e hanno affermato che l’Inps è tenuto a versare l’importo del tfr a prescindere dall’effettività dei versamenti da parte del datore di lavoro. Dovrà poi essere l’Inps, in quanto legittimato, ad agire con una causa per il recupero delle quote versate nei confronti dell’ex datore di lavoro.

Il tutto, oltre alle evidenti difficoltà per i lavoratori, espone anche i bilanci dell’Inps a seri rischi. Infatti, siccome alla fine di tutto il percorso l’Inps dovrà corrispondere il tfr, vi è il rischio che le casse dell’istituto subiscano sia il mancato versamento delle quote accantonate di tfr, sia il mancato versamento dei contributi perché (furbescamente) compensati con il tfr per la falsa dichiarazione del datore di lavoro.

Questa situazione si potrebbe evitare se solo si stabilisse che l’unico obbligato al versamento del tfr è l’Inps, escludendo l’anticipazione da parte del datore di lavoro ed evitando così l’incapienza contributiva per le posizioni previdenziali dei lavoratori rimasti dipendenti.

* Sono avvocato giuslavorista a Bologna e ho sempre difeso solo i lavoratori

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