Il 2016, l’anno che probabilmente verrà ricordato dai posteri come l’anno dei lutti famosi, non ci sta soltanto lasciando più poveri di grandissime personalità artistiche che hanno fatto la storia del Novecento (e di riflesso di questa manciata di anni del nuovo millennio), ma, come conseguenza, sta regalando (spero soprattutto ai più giovani, a chi ignora, a chi ha passato la vita in un nulla musicale fatto di reality televisivi e uomini di mezza età travestiti da rapper con la pancia), testimonianze cartacee utili a comprendere chi ci ha lasciato per sempre.

‘Sono l’uomo delle stelle’ di David Bowie (Il Saggiatore, traduzione di Cristian Caira), raccoglie le interviste di un’intera carriera. Interviste rilasciate da David Robert Jones, alias David Bowie alias Ziggy Stardust alias Halloween Jack alias The Thin White Duke Nathan Adler e via discorrendo, alle maggiori riviste musicali anglosassoni nel corso dell’intera carriera. Ed è così che il lettore può scoprire i retroscena dell’ascesa di una delle più grandi leggende del pop, dalla Londra beatlesiana, al periodo dei dudes, sfrenati apostoli del per i quali il travestimento e l’ambiguità sessuale erano le componenti della propria personalità artistica.

Dalle scorribande su Marte e in alti pianeti del sistema solare, alle inquietudini celebrate nell’omaggio-requiem dell’era glam di Aladdin Sane; dal trasferimento mitteleuropeo di Berlino permeato da echi armonizzati (chi ama e ha amato Low capirà), all’interpretazione senza make up del deforme John Merrick nella pièce teatrale di The Elephant Man; fino ad arrivare ai giorni nostri, passando per la breve esperienza dei Tin Machine e il successo planetario di massa. Un libro che può essere letto come una autobiografia speciale, nella quale Bowie si svela senza pudore, parlando delle sue collaborazioni, da Iggy Pop a Lou Reed, della sfera sessuale, delle droghe, del mondo e della società contemporanea. Una concreta testimonianza che bisognerebbe leggere per capire meglio l’uomo dai molti nomi e dalla infinite sonorità.

Sempre per Il Saggiatore è uscitoWhat happended, Miss Simone. Una biografia’ di Alan Light (traduzione di Elena Montemaggi), testo dedicato a Nina Simone, morta, è vero, non quest’anno, ma libro ugualmente importante per riappropriarci non solo di una delle protagoniste più significative della musica afroamericana, ma anche per conoscere la storia statunitense del secolo scorso. Quella di Alan Light (uno dei più bravi critici musicali che abbiano scritto sulle pagine di Rolling Stone), è una biografia esaustiva, che prende avvio nella Carolina del Nord negli anni 40, quando alla piccola Nina viene impedito di suonare il pianoforte per questioni razziali, e prosegue a New York, dove lavora come pianista-cantante in vari club, preambolo del debutto discografico, datato 1958, ai grandi successi dei primi anni 60 e alla partecipazione, intensa, nella lotta dei diritti civili e nell’affermazione di un nuovo potere nero. Alan Light racconta una storia di sofferenza, delusioni e abbandoni, come quello dei primi anni 70, quando Nina Simone, accusando sia l’Fbi che la Cia di scarso interesse nel risolvere il problema del razzismo, e delusa dalla piega troppo pacifista che stava prendendo il movimento di protesta, lascia gli Stati Uniti per andare a vivere prima alle Barbados, poi in Liberia, in Egitto, in Turchia, nei Paesi Bassi e in Svizzera in cerca di quel vigore senza pari che le ha sempre dato la forza di cantare e interpretare i sentimenti di una femminilità universale, spesso fatta di abusi e incomprensioni.

Syd Barrett è morto dieci anni fa, e dato che a molti piacciono le ricorrenze voglio ricordarlo con uno dei libri più belli che abbia letto nella mia vita. Si tratta di Rosso Floyd’, di Michele Mari (Einaudi). Una sorta di grande interrogatorio onirico (tra i testimoni abbiamo, tra gli altri, ancheDavid Bowie: tutto è circolare, pare) per svelare i segreti e le magie mentali del “Diamante pazzo” di Cambridge. Si legge all’interno: romanzo in 30 confessioni, 53 testimonianze, 27 lamentazioni di cui 11 oltremondane, 6 interrogazioni, 3 esortazioni, 15 referti, una rivelazione e una contemplazione.

Non credo Michele Mari si imbatterà in questo mio articolo, ma se ciò dovesse accadere voglio chiudere con un aneddoto. Non so se chiamarlo interrogazione o testimonianza, nel trend del romanzo, a riguardo. Era il settembre del 1997, alle nove di sera squillò il telefono, era il mio amico Tommy (Graziani). Mi disse solo: “Accendi la tv, metti su Tele Sette (una rete locale), infila una videocassetta nel videoregistratore e spingi play”. Mi sono trovato davanti a Stamping Ground, il festival del 1970 con ospiti come Jefferson Airplane, Santana, Byrds, Caravan, Third Ear Band, Tyrannosaurus Rex, Soft Machine, Dr. John, Family, Country Joe, Flock eccetera eccetera. All’epoca entrambi suonavamo in un gruppo di neorock psichedelico, The Love’s White Rabbits, uno delle band meno considerate del panorama mondiale (gli ho reso giustamente merito neQuando le chitarre facevano l’amore’, romanzo uscito per Spartaco Edizioni l’anno scorso), ed eravamo molto attenti dai suggerimenti che poteva darci il passato.

Salirono sul palco i Pink Floyd, la loro esibizione fu senza fronzoli, non era ancora il tempo, per poco, di maiali volanti e altre diavolerie. Suonarono male, fuori tempo, però l’esibizione di A Saucerful of Secrets era dolore allo stato puro. Bastava guardare gli occhi di Mason, uno che sì e no si sarà preso una sbronza nella vita, i suoi occhi erano quelli del pazzo, Waters rideva con sguardo equino e li incitava con quel “One more time!”, oscillando la testa, il grido di Gilmour, il sostituto del “Diamante pazzo” era un lamento da corsia del manicomio.

Due anni dopo, quando sia io che Tommy ci eravamo trasferiti a Londra, e lo stavo andando a prendere al posto di lavoro, mi ascoltai in cuffia quell’esibizione dei Pink Floyd, in mezzo ad Hyde Park. Con il cielo grigio e gli alberi flosci rividi nella mia testa il concerto. Ho sempre avuto l’impressione che quella sera i Pink Floyd, i superstiti, avessero in testa Barrett, o forse, Syd era lì, sul palco con loro, solo che noi, dall’altra parte, non riuscivamo a vederlo.

Michele Mari,  can you hear me? Se ti può servire, in una riedizione di Rosso Floyd puoi usare l’episodio. Non che sia così importante. Ma intanto voi, cari lettori, leggetevi il testo così com’è. Si tratta di un capolavoro, riconoscibile già a pagina uno.

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