di Alberto Bagnai e Piergiorgio Gawronski

L’analisi di Giuseppe Siciliano di una ipotetica uscita dell’Italia dall’euro a nostro avviso dimostra il contrario di quanto affermato nel titolo (L’uscita dall’euro? Benvenuti all’inferno); cioè che l’uscita è possibile senza catastrofi. Questo perché gli squilibri che ne deriverebbero, individuati dall’autore, sono gli stessi provocati da ogni svalutazione o riallineamento del cambio in regime di cambi fissi. Vi sono, in realtà, alcune difficoltà aggiuntive, ma sono gestibili laddove ci sia la volontà politica di farlo.

I toni apocalittici dell’autore, ripresi dal titolo, si basano in larga misura sull’ipotesi che “i capitali esteri lascerebbero il paese” dopo aver subito “rilevanti perdite” a causa della ridenominazione in lire delle obbligazioni private (bancarie) e pubbliche. Quest’ipotesi non è credibile, sulla base delle seguenti considerazioni giuridiche ed economico-finanziarie.

Nello sciagurato scenario di conversione forzosa, in lire, di tutti i titoli e depositi – prospettato da Siciliano – dal punto di vista giuridico non è vero che eventuali controlli preventivi dei movimenti di capitali non sarebbero attuabili perché “in contrasto con le norme Ue”. L’art. 66 del Trattato sull’Unione europea (versione consolidata) precisa che il Consiglio può limitare i movimenti di capitale, per un periodo non superiore a sei mesi, in caso di circostanze eccezionali. Questo articolo è già stato applicato nel caso di Cipro.

Nello scenario dell’introduzione, per un periodo transitorio, di una doppia circolazione monetaria, con ridenominazione forzosa (qui l’autore non è chiaro) in lire delle sole obbligazioni pubbliche e bancarie – ma non dei depositi bancari (e, suggeriremmo noi, neppure di parte dei mutui) -, dal punto di vista economico-finanziario l’idea che dopo il change over gli investitori si ritirino è irrazionale. Se così facessero, questi investitori esteri sarebbero proprio stupidi: abbandonare l’Italia – vendere le obbligazioni e i titoli pubblici italiani – dopo aver subito le perdite e non prima!

In realtà “dopo” l’uscita dall’euro (la ridenominazione in lire) i titoli italiani sarebbero più appetibili (non essendoci più rischi di nuove grandi svalutazioni) e gli investitori non avrebbero più motivo di ‘andarsene’. Invece, è ‘prima’, cioè adesso, che gli investitori se ne stanno andando. Lo dimostrano le massicce fughe di capitali in corso da un anno, ben documentate da Carmen Reinhart su Project Syndicate). Così l’Italia muore: perché ora al rischio uscita-svalutazione somma l’impossibilità di crescere.

Del resto, qualsiasi manuale di economia spiega che i mercati anticipano razionalmente (incorporandole nei prezzi) le conseguenze degli eventi futuri “attesi”, cioè “possibili”: il che significa, in buona sostanza, che quando l’evento si materializza non si verifica alcuna particolare catastrofe. Ad esempio, il Btp 01/11/26 già oggi quota 148, il 10% al di sotto dei suoi massimi storici; poiché il calo non può essere addebitato a una ripresa congiunturale, esso rappresenta il “rischio Italia” addizionale nel frattempo intervenuto. La quota totale del “rischio exitaly” (= rischio default degli emittenti + rischio di cambio) già incorporata nei prezzi non è dunque marginale. Anche perché il ‘rischio emittenti’ non va sovrastimato, considerato che la necessità di ri-monetizzare con le lire l’economia italiana lascerebbe al governo una riserva finanziaria non inflattiva del valore di 150-200 mld di euro a garanzia della stabilità finanziaria.

Gli ultimi eventi annunciati come traumatici per i mercati (dalla Brexit, all’elezione di Trump, al No al referendum costituzionale), con la loro sostanziale assenza di turbolenze importanti, sono un’ottima dimostrazione del fatto che l’economia funziona come gli economisti (e i loro manuali) ritengono faccia.

Aggiungiamo che, se ci fosse, un iniziale overshooting (eccesso di svalutazione, -> attesa di rivalutazione) del cambio potrebbe deprimere i tassi d’interesse e sostenere i prezzi (in lire) delle obbligazioni, delle azioni, e degli immobili, ed accentuare l’interesse degli investitori esteri per il nostro paese. Interesse peraltro attualmente assai scarso, se è vero che nel 2015 i flussi in entrata di investimenti esteri diretti sono stati, secondo la Banca mondiale, lo 0,4% del Pil, contro l’1,8% della Francia, l’1,9% della Spagna, ecc. Ma giova ricordare che le tante stime disponibili della potenziale svalutazione italiana non collimano con quelle, secondo noi eccessive, proposte dall’autore, e che i bilanci degli operatori economici non hanno solo debiti, ma anche crediti definiti in valuta “forte”.

Certo, l’uscita unilaterale presenta diverse criticità, determinate appunto dalla necessità di ridenominare nella nuova valuta, come abbiamo visto, alcune categorie di debiti. Dobbiamo essere grati all’autore di averle correttamente individuate: articoli del genere fanno bene al dibattito, perché aiutano a circoscrivere e quantificare i problemi effettivamente rilevanti. Su questi e altri punti auspichiamo un confronto sereno e fattuale, scevro da quei catastrofismi che minano la credibilità della nostra scienza.

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