Il dissesto della Popolare di Vicenza, finita in pancia al fondo Atlante? A causarlo furono “la grave crisi finanziaria ed economica italiana”, “l’impatto negativo della straordinaria normativa europea applicata alle banche italiane” e infine “una gestione scorretta da parte della direzione della banca, posta in essere con modalità tali da non poter essere accertata dal cda“. E’ la versione di Gianni Zonin, ex presidente della banca veneta che bruciando oltre 6 miliardi di capitalizzazione ha mandato in fumo i risparmi di 119mila soci. L’ex padre padrone dell’istituto, indagato dalla procura di Vicenza per aggiotaggio e ostacolo alla vigilanza insieme all’ex direttore generale Samuele Sorato, ha comunicato mercoledì mattina di aver “notificato un atto di citazione dinanzi al Tribunale delle Imprese di Venezia per l’accertamento della correttezza della sua attività nell’istituto di credito dal 1996 al 2015″. Vengono chiamati in causa la banca stessa, l’ex direttore generale Samuele Sorato e il suo vice Emanuele Giustini.

Questo ipotetico nuovo procedimento dovrebbe, secondo Zonin, “costituire la sede più naturale ed appropriata per ricostruire i fatti che oggi sono contemporaneamente sottoposti al giudizio della Consob, di Banca d’Italia, della Procura della Repubblica di Vicenza e del Tribunale delle imprese” e “contribuire all’accertamento delle responsabilità per alcune importanti deviazioni dalla corretta gestione”. In concreto l’imprenditore vinicolo prestato alla finanza auspica, “per evitare dispersione di conoscenze e aggravio dei costi“, “un unico processo civile, che comprenda tutte le contestazioni e le difese proposte dinanzi alla autorità regolatrici”. Un colpo di coda con cui Zonin tenta di uscire dall’angolo a meno di una settimana dall’assemblea straordinaria di Pop Vicenza che martedì 13 dicembre dovrà decidere se avviare l’azione di responsabilità “per gravi irregolarità” nei confronti della vecchia gestione, come annunciato pochi giorni fa dal nuovo presidente Gianni Mion.

Zonin sostiene in pratica di non aver avuto alcuna colpa nella mala gestio della banca che ha presieduto per 19 anni. La prova, a suo dire, starebbe nel fatto che “per 17 anni consecutivi, durante la sua presidenza, BPVi ha distribuito ai soci i consistenti utili conseguenti alla gestione profittevole della banca” mentre “nel periodo successivo alle sue dimissioni, avvenute nel novembre 2015, i due diversi consigli di amministrazione che si sono succeduti hanno ridotto il valore di un’azione da 48 euro dapprima a 6,30 euro e successivamente a 0,10 euro“. Peccato che la nota diffusa dall’ufficio stampa di Zonin ometta di ricordare che le popolari non quotate in Borsa, prima della trasformazione in spa imposta dalla riforma del gennaio 2015, abbiano sempre deciso i prezzi delle azioni a tavolino: il cda, sulla base del parere di esperti indipendenti nominati dai consiglieri stessi, proponeva una cifra all’assemblea dei soci, che ovviamente approvavano. A Vicenza, peraltro, le perizie indipendenti sono iniziate solo nel 2011 e il professionista che le ha firmate, il docente della Bocconi Mauro Bini, ha ammesso di essersi basato sui bilanci firmati da Zonin.

Il successivo taglio del valore, che nell’aprile 2011 era stato fissato a quota 62,5 euro per azione (a quel prezzo hanno comprato i soci che hanno partecipato agli aumenti di capitale varati nel 2013 e nel 2014, rispettivamente per 506 milioni e quasi 1 miliardo) è stato obbligato: l’ispezione della Bce partita a inizio 2015 ha fatto infatti emergere un buco da 1,5 miliardi nascosto dagli ex vertici, e l’operazione di pulizia dei bilanci effettuata dopo l’addio di Zonin ha praticamente azzerato il capitale. E’ stato dunque inevitabile imporre il salasso agli azionisti: una conseguenza indiretta della precedente sopravvalutazione voluta dai vertici e causata da pratiche illecite come i cosiddetti prestiti baciati, cioè condizionati all’acquisto di azioniobbligazioni convertibili dell’istituto stesso. Un modus operandi –sanzionato solo di recente dall’Antitrust – che gonfiava artificialmente il patrimonio di vigilanza della banca.

Non solo: stando a una relazione consegnata il 21 agosto 2015 dall’audit interno all’allora nuovo amministratore delegato Francesco Iorio (che si è dimesso due giorni fa ed è stato sostituito da Fabrizio Viola), alcuni grandi soci si vedevano accreditare direttamente sul conto corrente un compenso tra l’1 e l’1,5% del valore delle azioni comprate. Azioni di cui, visto che non erano quotate, era impossibile disfarsi se non rivendendole alla stessa Popolare. Che però non era tenuta a comprarle. Quando, tra 2013 e 2014, le richieste hanno iniziato ad accumularsi, il tempo di evasione delle pratiche è lievitato e molte sono rimaste inevase. In compenso alcuni clienti “vip” hanno avuto la precedenza e sono riusciti a disfarsi dei titoli prima del tracollo: per esempio il patron della Diesel Renzo Rosso, che ha venduto per 3,2 milioni un pacchetto comprato anni prima per poco più di 2,8, e la holding Finpiave di Giuseppe Stefanel, che ha incassato 1 milione.

Quanto al fatto che Zonin, come si legge nel comunicato, possa “condividere e comprendere lo stato d’animo dei risparmiatori e dei soci di BPVi, che in due anni si sono visti quasi azzerare il valore delle loro azioni”, in quanto “il dott. Zonin e la sua famiglia ne fanno parte avendo sottoscritto ogni aumento di capitale sociale della banca e non avendo mai proceduto ad alcuna dismissione del pacchetto azionario”, occorre ricordare che l’imprenditore vinicolo diventato banchiere ha incassato anche nel 2015, l’anno delle dimissioni e del rosso da 1,5 miliardi per la banca, un lauto stipendio da oltre 1 milione per 11 mesi di lavoro. Peraltro Zonin era sicuramente ben consapevole dello stato di salute della banca in cui investiva, al contrario dei circa 58mila azionisti i cui profili Mifid, secondo la relazione Bce, sono stati falsati: sono state attribuite loro competenzefinanziarie che non avevano per farli risultare adatti a comprare titoli il cui valore era fissato in modo discrezionale.

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