Il governo britannico si è appellato contro la sentenza della High Court che, il mese scorso, ha affermato la necessità di un voto del Parlamento prima dell’attivazione della procedura prevista dall’art. 50 del trattato di Lisbona, che delinea il percorso da seguire per lo Stato membro che intenda comunicare la decisione di lasciare l’Unione Europea.

Alla Corte Suprema di Londra era in calendario ieri la prima parte dell’udienza del caso ormai definito “la madre di tutte le battaglie costituzionali”: gli undici giudici della Corte, riuniti per l’occasione, considerata di particolare rilevanza, dovranno pronunciarsi sui limiti della Royal Prerogative, che l’attuale esecutivo rivendica in tutte le decisioni attinenti i trattati internazionali, contro chi ritiene invece che il Parlamento sia sovrano ogni qual volta vengano toccati i diritti dei cittadini ottenuti in forza di una legge nazionale, anche se di ratifica di un trattato internazionale.

Secondo i promotori della causa, si vuole evitare di creare un pericoloso precedente in cui il governo, in un caso a suo piacere, possa ignorare il Parlamento e procedere di sua iniziativa, senza preventivamente consultarlo.

Ieri mattina i giudici della Corte Suprema hanno preso posto in aula di fronte agli avvocati delle parti in causa, gli stessi presenti all’udienza della High Court più alcuni altri che sono stati ammessi come rappresentanti di ulteriori parti interessate.

Il Presidente, Lord Neuberger, ha voluto introdurre l’udienza annunciando la proibizione di pubblicare indirizzi e altri particolari personali delle persone coinvolte nel procedimento, dopo le minacce e gli insulti toccati ad alcuni di loro ad opera di mail o altre comunicazioni elettroniche anonime. L’accesso alla giustizia – ha detto – è un diritto di tutti ed è protetto dalla legge che ha i mezzi per punire chi tenta di impedirlo. Per ordine della Corte – ha poi annunciato – è stato chiesto a tutte le parti coinvolte se ci fossero motivi per ricusare alcuni dei giudici, ma nessun rilievo è stato sollevato.

Il Presidente ha ringraziato tutti i presenti per la collaborazione nello sforzo organizzativo che ha portato in tempi rapidi all’udienza di ieri, che si protrarrà per altre tre giornate, e si è rallegrato per la possibilità di trasmettere in diretta tv tutte le fasi del procedimento in modo da raggiungere un pubblico il più possibile vasto per un caso che ha suscitato enorme interesse per i suoi risvolti politici.

Tuttavia – ha tenuto a sottolineare – le questioni politiche non costituiscono l’oggetto dell’appello rivolto alla Corte, che riguarda unicamente questioni di diritto che verranno considerate dai giudici con imparzialità per decidere il caso secondo la legge. Successivamente, nel corso della mattinata, hanno preso la parola per il governo l’Attorney General Jeremy Wright e l’avvocato James Eadie. Non si è trattato di arringhe solitarie, ma sono state frequenti e interessanti le interruzioni e le domande di alcuni dei giudici con richieste di sviluppi, approfondimenti e delucidazioni.

Tre i punti presentati da Wright e poi sviscerati da Eadie con riferimenti alla giurisprudenza ritenuta pertinente.

In primo luogo la prerogativa dell’esecutivo in tema di affari esteri non è “un antico retaggio del passato, ma una necessità del presente. Includendo i poteri di stipulare e denunciare trattati, essa è un pilastro fondamentale della nostra Costituzione come Stato sovrano ed è essenziale nella concreta conduzione della cosa pubblica”. In secondo luogo “la prerogativa opera come parte di un sistema duale (che prevede la distinzione tra il potere dell’esecutivo di creare diritti e obblighi legali sul piano internazionale e la trasposizione degli stessi nella legge interna, in forza di leggi votate dal Parlamento, perché in un sistema duale i trattati non si “autoratificano”), anche nel contesto dell’Unione Europea”. In terzo luogo “la prerogativa opera in pieno accordo con la sovranità del Parlamento. Il Parlamento ha piena coscienza della funzione costituzionale e dell’utilità di questi poteri e, quando ha intenzione di porvi dei limiti, lo fa con precisione e con riferimenti specifici”.

Secondo Wright, il European Communities Act del 1972 sarebbe stato “un canale” che ha avuto la funzione di far entrare nella legge nazionale quanto stipulato a livello internazionale. In un sistema duale come quello britannico, si tratterebbe dunque di una legge che non ha nessuna conseguenza sull’esistenza e sul ricorso alle prerogative dell’esecutivo per il recesso dal trattato sull’Unione Europea.

L’Eca del 1972 prevedeva l’adozione nella legge nazionale di tutti gli accordi che si sarebbero stabiliti nel corso del tempo a livello internazionale, accettando così automaticamente l’adozione di nuovi diritti e obblighi, o la riduzione degli stessi, in conseguenza di modifiche a livello europeo, pattuite dal governo britannico in base alle prerogative dell’esecutivo. Il Parlamento – ha detto l’Attorney General – non ha mai chiesto di essere consultato prima di un eventuale recesso dall’Unione Europea. Avrebbe potuto farlo ma non l’ha fatto. Quindi avrebbe tacitamente accettato di non essere consultato anche in caso di recesso, lasciando all’esecutivo le sue prerogative come in tutti gli altri casi di modifiche del trattato.

L’avvocato Eadie ha poi approfondito questi argomenti suscitando molte domande dei giudici, soprattutto in merito all’estensione della Royal Prerogative che, nella concezione degli avvocati del governo, parrebbe non avere limiti se non quelli posti volta per volta in termini espliciti e chiari dal Parlamento.

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