Da un piccolo paese in provincia di Lecco alla Siria. La vecchia esistenza che si chiude di colpo alle spalle. Due figlie e un marito abbandonati dal giorno alla notte. Radicalizzazione lampo. Poi il sogno di ricominciare la nuova vita nel regno del Califfo trascinando con sé il figlio più piccolo, strappato dalla scuola elementare che frequentava e “iscritto” a un campo di addestramento per trasformarlo in un “martire”. Tutto intorno la guerra e il Jihad: l’orrore che il bambino è costretto a vivere ogni giorno sulla propria pelle. Mentre in Italia, a combattere contro il terrore, restano solo i familiari.

Era stato il marito, Afrimm Berisha, anche lui albanese come lei, a denunciare ai carabinieri la scomparsa della donna e del figlio. Era il 18 dicembre 2014. Valbona Berisha, oggi 34 anni, è fuggita da Barzago lasciando le due figlie di 11 e 10 anni. Il 28 novembre scorso il gip di Milano, Manuela Scudieri, ha emesso un’ordinanza di custodia cautelare in carcere nei suoi confronti per associazione a delinquere con finalità di terrorismo internazionale, e a Lecco è stato aperto un fascicolo per sottrazione di minore. A indagare sono stati i carabinieri del Ros di Milano, guidati dal colonnello Paolo Storoni, e coordinati dal procuratore aggiunto Maurizio Romanelli (a cui poi è subentrato Alberto Nobili) e dal pm Alessandro Gobbis della Dda di Milano. Gli specialisti dell’antiterrorismo sono riusciti a sequestrate materiale informatico e video di predicatori che inneggiavano al Jihad, oltre ad alcuni dove si vedono bambini che si addestrano coi kalashnikov. Il cellulare che le aveva regalato il cognato e sul quale era installato un gps ha consentito agli investigatori di tracciare il viaggio di Valbona verso la Siria e di ricostruire parte della storia.

La famiglia Berisha è musulmana. Poco osservante. Abita in Italia dal 2000. Il marito è un muratore di 13 anni più vecchio. Lei è una casalinga. Conduce una vita quasi da “laica”. Ma all’improvviso scatta il cortocircuito. Così come è capitato a tanti altri aspiranti foreign fighters. Così comincia a “intraprendere un percorso di radicalizzazione”, a studiare in “modo esasperato il Corano”, a lasciarsi indottrinare via web dal predicatore macedone Omer Bajrami, i cui filmati sono stati ritrovati nel pc della Berisha che compie una parabola simile a quella di Alice Brignoli e del marito, anche loro fuggiti nel Califfato assieme ai tre figli piccoli.  Valbona entra in contatto con “alte sfere dell’Isis”. La meta finale della sua vita diventa la Siria. Ci arriva grazie all’aiuto di un “conclamato foreign fighter” di origine serba: Selimoviq Mendush. Il jihadista (morto nel febbraio 2015 in combattimento), dice la Dda, ha acquistato, pagandoli in contanti in un’agenzia kosovara, i biglietti aerei per la donna e il figlioletto di sei anni, partiti il 17 dicembre 2014 da Orio al Serio per Istanbul.  Valbona Berisha attraversa la Turchia dove si unisce a una famiglia bosniaca che ha la sua stessa destinazione. Poi la mamma e il bimbo vengono inghiottiti dall’abisso in un paese a 40 chilometri da Aleppo, dove la donna si sposa con un soldato macedone dell’Isis. “Sono molti – ha spiegato il comandante del Ros di Milano, colonnello Storoni – i casi di matrimonio per procura, sembrano quelli dei nostri immigrati di una volta. Quello dell’Isis è un contesto in cui ci si innamora via internet”. Come è successo a Maria Giulia “Fatima” Sergio, la 29enne di Inzago partita per la Siria dopo essersi sposata via web con l’aspirante jihadista Aldo Kobuzi: il 16 novembre i pm di Milano hanno chiesto per entrambi una condanna a 9 anni. Secondo gli inquirenti anche “Fatima” ha avuto contatti telefonici con Bajrami, imam della moschea della capitale macedone Skopje. E come “Fatima” anche Valbona Berisha, una volta in Siria, entra nelle fila dello Stato islamico per prestare “soccorso” e combattere la “guerriglia”, dicono oggi gli investigatori.

ros1In questi anni il marito cerca disperatamente di contattare la moglie per conoscere la sorte del bambino. Ci riesce due volte. Nel gennaio 2015, al telefono con un conoscente, confida tutta la sua preoccupazione: “Domenica mattina quando ho parlato (con il bambino, ndr) mi ha detto ‘ho paura perché ci sono gli aerei che lanciano delle bombe’ .. ma lei non ne vuol sapere niente, dice che tanto moriremo lo stesso …”. “Cerca di convincerla con le buone … dille ‘mandami il figlio e tu stai e fai quello che vuoi'”, gli consiglia l’amico. “Le ho già detto! Le ho detto fai quello che vuoi ma non rovinare mio figlio … Mi dispiace per mio figlio … ho parlato solo due minuti con lei”. Il giorno dopo, in un’altra conversazione con un altro uomo, Afrimm Berisha spiega che il figlio parlando della madre “ha detto che la mamma si è vestita e sembra un ninja. Gli ho detto ‘glielo faccio vedere io il ninja appena la becco. Mi ha detto che le dice ‘vieni andiamo da papà perché devo andare a scuola’, ma (lei, ndr) non mi lascia”.

A fine febbraio 2015 Afrimm Berisha viene anche contattato da una volontaria italiana che era stata in Siria per portare aiuti alle popolazioni delle città di Unamet e di Al Bab. “La donna, con la quale Afrimm Berisha si era infine incontrato circa un mese prima presso la stazione ferroviaria di Como – scrive il gip Scudieri nell’ordinanza di custodia cautelare – gli aveva riferito di avere incontrato in Siria Valbona Berisha e il figlio due volte e che quest’ultimo aveva manifestato il desiderio di tornare in Italia ma la madre si era opposta”.

Perché per il piccolo Valbona ha scelto un altro destino. Gli cambia il nome chiamandolo Yussuf. Lo circoncide e lo manda in un campo di addestramento per fargli imparare la lotta corpo a corpo. Sogna che l’unico figlio maschio diventi un “futuro combattente“. Un “martire”. Ad oggi non si sa se la mamma e il bimbo siano ancora vivi o se il desiderio delirante di Valbona si sia trasformato nella condanna a morte del piccolo.

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