Se in Italia la grande depressione degli anni ’20-’30 è passata senza colpo ferire, la grande recessione economica iniziata nel 2008 provoca ancora i suoi effetti su salute e mortalità. Si va dall’accesso alle cure, alle difficoltà per i giovani, fino al fenomeno dei suicidi. Tantissimi gli italiani, infatti, che rinunciano alle cure mediche perché pur avendone bisogno non hanno le risorse economiche per pagarne i costi. Lo ha dimostrato l’indagine Istat del 2013 (su dati 2012-2013 che riguardavano 60mila famiglie): due milioni e mezzo di persone hanno dichiarato di aver rinunciato per motivi economici, un milione e 200mila erano donne, 800mila dai 40 ai 64 anni, proprio nell’età in cui è più necessario fare prevenzione. Ma a pagare di più la crisi sono i giovani: l’11 per cento dei ragazzi sotto i 18 anni vivono in famiglie povere in senso assoluto, il 20 per cento in condizioni di povertà relativa. È quanto è stato evidenziato ieri, da Viviana Egidi ed Elena Demuru, rispettivamente professore ordinario del Dipartimento di Scienze statistiche e dottore di ricerca della Sapienza di Roma. Il loro convegno si è tenuto nell’ambito del ciclo di incontri scientifici sulla società italiana e le grandi crisi economiche in Italia, organizzati in occasione delle celebrazioni per l’anniversario della fondazione dell’Istat.

IL LEGAME TRA SALUTE, MORTALITÀ E BENESSERE ECONOMICO – La salute degli individui e delle popolazioni è strettamente legata al benessere economico, tanto a livello individuale che collettivo. “In anni in cui il tasso di mortalità scendeva molto rapidamente grazie a miglioramenti ambientali e delle condizioni di vita – ha spiegato a ilfattoquotidiano.it la professoressa Viviana Egidi – la grande depressione non ha comportato alcuna conseguenza immediata, al contrario la crisi attuale ha avuto effetti sensibili”. Primo fra tutti un significativo rallentamento della riduzione della mortalità per malattie del sistema circolatorio, che ha agito negativamente sulla mortalità complessiva. “In pratica – spiega la docente – non è che la mortalità stia aumentando, ma ha smesso di diminuire ai ritmi che hanno caratterizzato il periodo antecedente al 2008”. A questo dato si aggiunge il fatto che se in passato le malattie cardiovascolari erano tra le prime cause di decessi insieme a diverse patologie, negli ultimi decenni l’aspettativa di vita è molto aumentata quindi le variazioni nei tassi di mortalità diventano più sensibili a crisi economiche e cambiamenti ambientali. “Basti pensare – spiega la docente – ai decessi registrati nel 2015 a causa del caldo tra gli anziani”.

L’ACCESSO ALLE CURE – Il rapporto Istat 2015 ha evidenziato come il processo di rientro dal debito, cui hanno dovuto far fronte numerose Regioni, associato alla difficile congiuntura economica, ha avuto come conseguenza una riduzione dell’equità nell’accesso alle cure. Al fatto che alcune delle Regioni sotto piano di rientro dal debito non siano riuscite ad assicurare i livelli essenziali di assistenza si aggiunge il fenomeno della rinuncia a prestazioni sanitarie. Secondo il rapporto il 9,5 per cento della popolazione non ha potuto fruire di prestazioni che dovrebbero essere garantite dal servizio sanitario pubblico per motivi economici o per carenze delle strutture di offerta (tempi di attesa troppo lunghi, difficoltà a raggiungere la struttura oppure orari scomodi). “Il problema grave – spiega la docente della Sapienza – è che la rinuncia alle cure può portare a un peggioramento delle patologie con il rischio che i tumori vengano diagnosticati in una fase troppo avanzata della malattia e che si mandi all’aria il lavoro fatto sulle diagnosi precoci”. Sempre in termini di accesso alle cure, durante la crisi le differenze si sono allargate anche sotto questo profilo: “I differenziali territoriali che prima del 2008 si stavano lentamente colmando – aggiunge Viviana Egidi – sono tornati ad ampliarsi”. Il rapporto Istat del 2015 lo evidenzia: nel Nord-ovest si registra la quota più bassa (6,2 per cento) di rinuncia per motivi economici o carenza dell’offerta, mentre nel Mezzogiorno la quota è più che doppia (13,2 per cento).

I SUICIDI – Sebbene non si possa parlare di relazione causale tra crisi e suicidi, c’è una teoria che lega questo tipo di decessi alle condizioni economiche: “Se con la grande depressione tra il 1930 e il 1931 si è registrato un temporaneo aumento di uomini che si sono tolti la vita (parliamo numericamente di 500 suicidi in più) ma già nel ’32 si è tornati ai valori normali, nel periodo recente l’alterazione è diventata più duratura e ha riguardato, sempre uomini, dai 30 ai 74 anni”. Per la docente “non si può parlare di causa-effetto, ma si notano delle associazioni”. In alcuni casi, l’aumento dei suicidi si verifica anche prima che inizi la crisi economica vera e propria. Si tratta dei cosiddetti ‘eventi-sentinella’. Solo di recente, comunque, i numeri si stanno via via tornando alla normalità.

UN’IPOTECA SUL FUTURO – Il convegno si è chiuso con un monito che riguarda le nuove generazioni, quelle che stanno pagando la crisi in modo maggiore. La salute dei giovani peggiora. Il 31 per cento dei ragazzi sotto i 18 anni vivono in condizioni di povertà assoluta o relativa. “Diversi studi – ha concluso la docente – dimostrano che se si vive in condizioni di difficoltà economiche da bambini, si tende a rimanere in quelle stesse condizioni fino alla terza età”. Le condizioni di vita nell’infanzia influenzano gli esiti di mortalità e di salute durante l’intero corso della vita. Le conseguenze? “Se si arriva a 80 anni dopo aver sofferto fin da bambini, si rischia di vanificare tutti gli sforzi che si stanno facendo per garantire ai cittadini di invecchiare in buona salute, una necessità per evitare che il sistema sanitario nazionale non collassi”.

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