Nei giorni in cui Sarkozy esce sconfitto dalle primarie della destra francese e la premier tedesca Angela Merkel annuncia l’intenzione di ricandidarsi per il quarto mandato, uno scoop del Sunday Times rafforza le voci di un rientro di Tony Blair in politica. Titolo eloquente: “La May è un peso leggero e Corbyn uno svitato, quindi torno io”. Secondo l’autorevole quotidiano britannico, che ne scrive con dovizia di particolari ma citando fonti anonime, Blair sarebbe inviperito per la svolta a sinistra del Labour e vedrebbe nell’incertezza provocata dalla Brexit la possibilità di un rientro. “Non è particolarmente entusiasta di Theresa May. Pensa sia una nullità, che Corbyn sia uno svitato e che i Tories stiano facendo un gran casino con la Brexit. Pensa che nello scenario politico britannico si sia creato un ampio spazio in cui potrebbe inserirsi”, riporta il quotidiano, citando una fonte non precisata ma abbastanza vicina a Blair da discutere con lui gli attuali scenari politici.

Lo staff di Blair ha negato che l’ex leader laburista si sia espresso in questi termini ma non ha smentito il resto dello scoop. Secondo quanto ricostruito dal Times, dal giorno del referendum l’ex premier laburista sarebbe stato molto attivo nel sondare i margini di manovra per un suo rientro. Fra gli incontri più rilevanti, quello con George Osborne (ex potentissimo Ministro dell’economia del governo Cameron, sostenitore del Remain e dimissionato immediatamente da Theresa May), con cui Blair si sarebbe trovato d’accordo proprio sulla strategia post-referendum. Osborne starebbe creando una fronda interna al partito conservatore per contrastare l’ipotesi di una hard Brexit, e ne farebbero parte alcuni nomi di peso del partito come Nicky Morgan, Ministro dell’Istruzione nel secondo governo Cameron, e Anna Soubry, parlamentare dell’ala modernizzatrice dei Tories. Ma il progetto di Osborne non esclude la partecipazione anche di nomi di spicco del fronte laburista, da Lord Mandelson, uno degli architetti del New Labour, al giovane, brillante parlamentare Chuka Umunna, in rotta di collisione con i Corbynisti. Theresa May sarebbe al corrente di questo dialogo fra esponenti di spicco dei due partiti, che i suoi collaboratori a Downing street avrebbero definito “allenza diabolica”, creata con lo scopo di boicottare il risultato del referendum.

Intanto, dopo aver annunciato, a settembre, la chiusura della sue controverse società di consulenza (Windrush Ventures, Firerush Ventures e la Tony Blair Associates) Blair starebbe cercando nuovi uffici vicino a Whitehall, sede del governo, per la sua nuova creatura: un think tank no profit con il mandato ambizioso di trovare soluzioni di lungo periodo a problemi come il contrasto all’estremismo, l’elaborazione di un nuovo approccio al processo di pace in Medio Oriente e la creazione di modelli efficaci di governance per i paesi poveri. Il nome? Due i più probabili: Tony Blair Institute for Global Change o Tony Blair Centre for Global Change. Il lancio ufficiale sarebbe previsto per gennaio. Ed è proprio la parola “change” che appare cruciale in quello che, se confermato, appare come il tentativo di Blair di “rifarsi una verginità” grazie a Brexit. Il mese scorso, in un editoriale sul New European, Blair aveva lanciato un appello ai sostenitori del Remain, invitandoli a “mobilitarsi ed organizzare” un movimento di pressione contro l’uscita dall’Unione Europea e per un secondo referendum.

La strategia di cavalcare le preoccupazioni di un’ampia porzione dell’opinione pubblica britannica mettendosi alla testa del fronte del Remain potrebbe funzionare, considerata l’esperienza e i rapporti ad altissimo livello accumulati da Blair durante e dopo gli anni da Primo ministro britannico. E se le sue fosche previsioni sugli effetti di Brexit dovessero avverarsi, potrebbe sedersi sulla riva del fiume e aspettare il passaggio del cadavere dei suoi peggior nemici politici, Theresa May e Jeremy Corbyn. Il tempo gioca a suo favore, con le elezioni politiche fissate per il 2020. Ma Tony Blair ha molto da farsi perdonare, perfino dallo zoccolo duro dei nostalgici del suo New Labour. Primo fra tutti, il rapporto Chilcot, frutto del lavoro della commissione d’inchiesta parlamentare sulla partecipazione del Regno Unito all’intervento militare in Iraq del 2003, pubblicato lo scorso luglio. Un’inchiesta da cui erano emerse le gravissime responsabilità di Blair, allora Primo Ministro, nel condurre il paese in una guerra senza legittimità politica, sulla base di prove ed analisi fabbricate e con una preparazione militare inadeguata. Una condanna politica che sembrava, almeno fino a ieri, senza appello.

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