Quando il commesso di fronte alla stazione Termini mi ha chiesto se serviva un “pacchetto”, ho risposto che no, che non mi serviva, io non vedevo l’ora di scartarlo. Non volevo ci fosse nulla tra me e “Hardwired… To Self-Destruct”: forse neanche le mie aspettative, i miei pregiudizi, i miei timori circa tante, troppe cose che hanno riguardato gli ultimi 15-20 anni di vita dei Metallica. In una recente intervista James Hetfield si era addirittura spinto a dire che Cliff Burton non avrebbe mai permesso album quali “Load” e “Reload”: come a dire neanche troppo tra le righe, che più che mettere la faccia su roba del genere si sarebbe ammazzato da solo, nel caso. Ahimè, ahinoi, le cose sono andate diversamente: per i Metallica (tutti) e, ancora prima, per il loro povero (ex) bassista. Ma se la stella polare è questa, provo allora a rovesciare la domanda: Cliff Burton avrebbe mai preso parte ad un disco come questo “Hardwired… To Self-Destruct”? Ci penso un po’ e rispondo con una certa tranquillità di “sì”.

Il perché è presto detto: la decima fatica in studio della band metal più famosa al mondo è un buon disco, a tratti buonissimo e – a tratti ancora – addirittura bello, il che suona già come una notizia nel 2016 e visti i tanti scivoloni “di cui sopra” da cui – comunque la si metta – gli stessi Metallica si erano già abbondantemente ripresi dopo la debacle di “St. Anger” con l’onestissimo “Death Magnetic”. I difetti, gli ultimi, rimangono comunque in gran parte quelli anche qui: l’ottimo lavoro di Greg Fidelman dietro al mixer (seconda notizia) non compensa l’inutile prolissità che spesso affligge i Metallica, che riescono (quando vogliono) nella missione quasi impossibile di uccidere le loro stesse canzoni rendendole difficili da masticare: il che è un paradosso, quasi debba essere considerato merito altrui avere portato il genere che è parte del loro moniker alla massima espressione – di pubblico e di vendite – nel mondo. La seconda e ultima obiezione ha invece un nome ed un cognome: Kirk Hammett. Non devi essere necessariamente Marty Friedman, Alex Skolnick, Chris Broderick o Dave Murray per tirare giù un assolo degno di questo nome: eppure a Kirk Hammett questo non riesce dai tempi del “Black Album”, quindi da 25 anni e mezzo. A discolpa del riccioluto “asso” della sei corde va altresì ricordato che – nel mezzo – c’è stato lo smarrimento di un iPhone (il suo) “pieno di idee”, magari – non sarebbe difficile – migliori di quelle messe nero su bianco in forma definitiva su questo disco: a triste conferma di quanto appena detto, anche il fatto che lo stesso Hammett non compaia nei credits di nessun pezzo.

Ma ciò che rende i Metallica “i Metallica”, risiede proprio in quelli che abbiamo appena descritto essere i loro punti deboli: perché nonostante questo, nonostante non abbiamo un solista, nonostante i disegni ritmici di Lars Ulrich non facciano che – alle volte, non sempre – mettere in risalto i suoi evidenti limiti tecnici e creativi, alla fine della fiera succede però che tutto va come deve andare. “Hardwired… To Self-Destruct” gira, ha groove e sostanza per tutte le 12 canzoni che lo compongono: divise nello schema, ostile e paravento, di 2 dischi quando in realtà il “solo” e già citato “Death Magnetic” durava neanche 3 minuti in meno (74:43 contro 77:26) e venne venduto, all’epoca, in formato ‘unico’. Se di un disco (e più in generale di un gruppo) bisogna guardare sopratutto alle cose “minori” per avere la dimensione di tutto il resto, “Hardwired…To Self-Destruct” conta 8-9 canzoni – per motivi diversi tra loro – ben al di sopra della media: della media di chi, di che cosa? Del mondo. Tra queste, l’opener (che poi abbiamo scoperto essere un ‘teaser’ attaccato al resto del disco in ultima istanza) “Hardwired”, il terzo singolo “Atlas, Rise!” (forse la più coerente e riuscita di tutta l’opera), la granitica e catchy (specie nel ritornello) “Now That We’re Dead”, la penultima estratta “Moth Into Flame” (un po’ “Ride The Lightning”, un po’ anche no), la riflessiva “Halo On Fire” (p.s. = solo ai Metallica mancava un brano che includesse nell’intestazione la parola “halo”), il cazzeggio hard-rock di “ManUnkind”, la seriosa cattiveria dark di “Here Comes Revenge”, il refrain inquietante e intrigante di “Am I Savage?” e – last but not least – l’impeccabilità dell’ultima “Spit Out The Bone”: il sussulto dei sussulti.

Che non tutte le ciambelle riescano col buco è qualcosa che i Metallica e, ancora prima i loro fan – ma più in generale i fruitori della musica di un certo livello – hanno imparato bene, ciò detto visti i tempi (e le premesse) “Hardwired… To Self-Destruct” arriva come un disco coerente ed onesto, che cresce esponenzialmente a partire dal secondo ascolto in poi per arrivare nei prossimi giorni, mesi, anni “chissà dove”. Comunque è lì, il che è già tremendamente bello: a prescindere pure da tutto il resto che comunque, se permettete, non è proprio poca roba. Se poi la vostra idea, assolutamente legittima, è ricordare a voi stessi, al sottoscritto, agli altri “qua sotto” che certo “una volta sì, poi ho smesso di ascoltarli perché…” vi chiedo la cortesia di lasciar stare: i Metallica, con le loro cadute di stile, vi hanno comunque riempito la vita.

Rendetegli giustizia.

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