Donald Trump è diventato il presidente degli Stati Uniti dopo i due mandati di Barack Obama che in modo altrettanto eccezionale aveva vinto allora le primarie nonostante l’ostracismo del partito democratico e i colpi bassi della sua potente rivale Hillary Clinton. Quella stessa ex-firts lady onnipresente alla casa Bianca fin dal ’92, senatrice democratica a New York, nonché segretario di Stato nell’amministrazione Obama per la quale il presidente in carica si è speso, abbastanza incredibilmente ed inopportunamente oltre il dovuto, tentando l’impossibile e cioè di accreditare come sua “erede necessaria” una figura che era già fuori dalla storia, che aveva già percorso ed esaurito il suo cursus honorum e che ha preteso la candidatura grazie allo straordinario potere familiare e alla debolezza di un partito “condiscendente“, ora auto-annientato.

Il patrimonio di speranze straordinarie che aveva concentrato su di sé Barack Obama e che aveva in parte, ed inevitabilmente, frustrato sia per i suoi errori che per i veti del Congresso, si è disintegrato in questo mancato passaggio di testimone ad una candidata sbagliata, espressione dell’establishement, rappresentante di un’investitura dinastica, abile nella politica politicante e su cui Wall Street aveva puntato.

La Clinton coalition, copiata di sana pianta da Obama doveva avere al centro come riferimento culturale e sociale e come destinatari privilegiati dell’appello al voto le donne, i neri e i giovani. Il giorno dopo, anche se va riconosciuto alla Clinton di avere superato di quasi 170.000 voti popolari il rivale, dagli stati chiave come la Florida dove è arrivata al 51% risulta che non ha sfondato tra le elettrici, segno evidente della stanchezza diffusa per la retorica vuota del voto di genere, tanto più se agitata da un’ ennesima e blasonata “femminista” ben arroccata sul cognome di un marito che non è propriamente un signor nessuno. Quanto ai neri non hanno individuato il motivo per sostenere la Clinton con lo stesso slancio che avevano riservato ad Obama. E tanto meno si sono mobilitati per lei i giovani che già all’apertura della convention democratica gridavano “o Bernie o niente” in quanto delusi e disgustati per il trattamento riservato all’outsider Bernie Sanders, un avversario ben più credibile per il palazzinaro miliardario.

Dopo una campagna elettorale ai limiti dell’assurdo in cui la “grande informazione” invece di registrare quello che stava avvenendo, e cioè la fuga dall’establishment non importava dove di una fetta tanto consistente dell’elettorato da diventare maggioritaria, si è baloccata con i presunti successi dell’ex firts lady nei duelli Tv e ha contribuito non poco a fare di Trump un John Wayne cialtrone “solo contro tutti” l’America si trova orfana del suo Dna di “grande paese” dove gli opposti potevano convivere.

Metà America quella vittoriosa confida di essere finalmente rappresentata, incurante dell’evidenza che se Trump realizzasse per esempio il suo programma contro l’ambiente e a favore del surriscaldamento globale, dato che per lui i mutamenti climatici sono una bufala, gli effetti sarebbero disastrosi. Inclusi quelli sulla migrazione verso il nord del mondo tanto più inarrestabile, quanto più le condizioni precipitano, con qualsiasi muro.

L’altra metà, in buona parte fuorviata sull’esito del voto da una campagna mediatica unilaterale, da sondaggi fallaci, da commentatori che vedevano solo quello che li rassicurava non accetta un risultato obiettivamente preoccupante che mai come prima, o in modo più drammaticamente evidente, mette a rischio diritti, libertà, equilibri internazionali.

Questo è solo l’effetto del giorno dopo quanto era prevedibile e si è verificato in un paese che anticipa in modo macroscopico ciò che riguarda anche noi e che si è già peraltro già manifestato con la Brexit. Massimo Cacciari la chiama secessio plebis e si tratta della risposta del popolo quando la partecipazione democratica diventa un optional, una foglia di fico per avallare le scelte autoreferenziali di élites tecnocratiche che non hanno altro fine se non quello di perpetuarsi immutate.

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