A volte serve un romanzo per raccontare una realtà che giornali e tv non si curano di descrivere, inchiodati come sono a cliché e stereotipi, specie nel racconto di cronaca. A volte serve un romanzo per svelare qualcosa a cui nessuno di noi pensa, affetti come siamo da vista parziale, troppo ossessionati da alcuni temi, completamente ciechi su altri. Per questo vale la pena di leggere il nuovo romanzo della giornalista Elvira Serra, Il vento non lo puoi fermare (Rizzoli), dove lo sguardo dell’autrice si concentra sul dolore di un ragazzo gentile, rispettoso e ipersensibile che per sbaglio uccide con la macchina del padre una giovane donna madre di una bambina. Senza essere né ubriaco né drogato, senza aver violato le regole del codice stradale.

Il lavoro di immaginazione che l’autrice fa  su ciò che accade al protagonista Elias Portas dopo l’incidente è un piccolo capolavoro psicologico: una progressiva chiusura in se stesso, l’impossibilità di uscire fuori dalla sua stanza per oltre due anni, la vergogna immensa, il senso di colpa spaventoso, lo sforzo di espiazione, la volontà di autopunizione per aver compiuto un gesto per il quale sembra non esistere perdono. Elias perde tutto, tutto ciò che aveva: l’università, il coro, la musica, gli amici, la sua vita. Non è morto come la donna, ma è come se lo fosse. Dovrà passare tantissimo tempo perché il giovane cominci, lentamente a reagire, e solo dopo aver aspettato la sentenza del giudice che lo assolve in pieno.

Quante vite spezzate, come quelle di Elias, ci sono negli incidenti stradali, oltre a quelle realmente rimaste sulla strada? Raccontare anche la loro sofferenza significa prendersi il rischio di pesanti accuse di insensibilità (se non di cinismo); accuse di voler mettere sullo stesso piano una persona che non c’è più e una che ancora ha di fronte la vita. Ovviamente non c’è niente di tutto questo nel romanzo di Serra, quanto, appunto, la volontà di accendere i riflettori su una realtà a cui noi mai pensiamo leggendo i trafiletti di cronaca: chi di noi, sapendo che una donna, un bambino, un anziano sono stati uccisi da un’automobile ha mai pensato al conducente? Lo si immagina volentieri rumeno, ubriaco, fuori legge, mentre spesso a uccidere sono uomini e donne normali, italiani, sobri, magari con i bambini legati dietro nei seggiolini, magari con uno smartphone in mano per avvisare qualcuno che stanno tornando, c’è traffico, di mettere sul fuoco la cena. Persone che spesso dopo l’incidente non riescono più a vivere come prima, soffrono di angosce, incubi, smettono per sempre di guidare, cadono in depressione, qualcuno arrivano persino a togliersi la vita.

È questa realtà che non vuole ammettere il marito nella donna uccisa nel libro quando Elias trova dopo mesi la forza di presentarsi a casa sua. Perché quello che ti ha distrutto la vita non può essere un ragazzo mite e distrutto, ma – come se l’è sempre immaginato il marito della donna – un figlio di papà arrogante e insensibile al dolore altrui, un egoista cieco e folle che non sa neanche che distruggere una vita significa annientare quella di un’intera famiglia, figli, nonni, zii, tutti i parenti di chi non c’è più.

Sarebbe bello se questo libro fosse presentato all’Associazione Familiari e vittime della strada. Che tra l’altro ha ottenuto una grande vittoria il 2 marzo scorso, visto che il nuovo reato di omicidio stradale è uno tra i più duri d’Europa. Si rischiano dagli 8 ai 12 anni di carcere se si uccide con un tasso alcolemico nel sangue alto, fino a 20 anni se il conducente si dà alla fuga. Può essere punito con reclusione da 5 a 10 anni l’automobilista con un tasso alcolemico lieve, oppure che abbia causato l’incidente per condotte di particolare pericolosità. Se una persona muore, però, il colpevole rischia fino a 18 anni di carcere. Ancora: la patente viene sospesa per 15 anni in caso di omicidio e per 5 anni in caso di lesioni personali (basta che la vittima vada al pronto soccorso). Se il conducente è fuggito, però, saranno ben 30 gli anni di revoca della patente.

Sono informazioni che ben pochi sanno o vogliono recepire, eppure sono già operative e rischiano – giustamente –  di rendere la vita di chi ha ucciso ancora più difficile. Chissà cosa sarebbe accaduto all’Elias del romanzo se l’incidente fosse accaduto oggi. Ma ciò che conta è che, finalmente, si aprano gli occhi anche su cosa succede a chi, involontariamente, ha ucciso. Per conoscere, finalmente, un tassello che mancava e che serve a tutti: a chi soffre per una perdita, a chi quelle perdite le racconta ogni giorno su giornali e tv.

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