Guerrina Piscaglia non è mai stata ritrovata dal giorno della sua scomparsa, il primo maggio 2014. Padre Graziano, congolese e di nome Gratien Alabi, è stato condannato a ventisette anni di carcere per l’omicidio di Guerrina. Un omicidio senza corpo della vittima. Una decisione costruita sugli indizi: due su tutti e cioè le immagini hard ritrovate sul computer di Graziano e un sms che lascia molti dubbi.

A dieci giorni dalla scomparsa di Guerrina, costui avrebbe scritto a tale Giuseppina, una catechista di Cà Raffaello, luogo in cui viveva la Piscaglia: “Non prendetevela col prete; io sono fuggita per amore”. Questo messaggio sarebbe partito dal telefono della vittima che, dunque, sarebbe dovuta essere viva oppure sarebbe stato inviato da una mano sconosciuta (l’assassino?) che avrebbe, forse, sottratto il telefonino alla Piscaglia all’atto dell’occultamento del cadavere. Perché Padre Graziano dovrebbe essere il responsabile di quel messaggio e dunque, della morte della donna scomparsa? Essenzialmente per due ragioni: lo stretto rapporto personale nato tra il prete congolese e Guerrina (ma anche tutta la sua famiglia, cioè il marito ed il figlio disabile) e perché le celle telefoniche agganciate dal telefono di Guerrina, al momento dell’invio di quel messaggio, sono le medesime che, nello stesso istante, agganciava il cellulare del Padre.

Intorno a Padre Graziano è stato “cucito addosso” il vestito del “prete deviato”, con interessi sessuali particolarmente accentuati. Una sorta di “colpa genetico-antropologica” che è stata assai utile alla Corte di Assise di Arezzo per “riempire” i vuoti dimostrativi degli scarsi elementi probatori a disposizione. Ponendo come presupposto certo che la Piscaglia sia stata uccisa (si ripete, nonostante il mancato ritrovamento del corpo) e ciò in un tempo ragionevolmente prossimo al 1° maggio del 2014, colui che ha inviato, in un tempo successivo, quel messaggio dovrebbe essere l’assassino, che si sarebbe impossessato del telefono e avrebbe così “deviato le ricerche”, facendo credere ad una fuga passionale. Bisogna uscire dalla trappola mentale istintiva, da film giallo, di collegare deduttivamente l’elemento morte, il messaggio sms, la conoscenza e le frequentazioni tra la presunta vittima ed il prete condannato e l’identicità delle celle telefoniche agganciate dai telefoni da cui quel messaggio è partito e quello in uso a Padre Gratien.

Va ricordato come la regola di diritto vuole che un indizio, perché formi una prova, deve essere, contemporaneamente, “grave”, “preciso” e “concordante”. E’ grave l’indizio che, logicamente, conduce il ragionamento dal fatto noto al fatto ignoto (in questo caso il fatto ignoto è “chi ha ucciso la Piscaglia”); è preciso l’indizio che non crea dubbi sulla sua reale consistenza fattuale; è concordante l’indizio che non vive da solo ma è coordinato con altri elementi indiziari. Ebbene, nel caso di specie, già l’elemento morte è dubbio e, dunque, volendo essere rigorosi, il fatto ignoto da provare (chi ha ucciso la donna?) è una pura ipotesi, credibile ma non certa.

Da ciò ne deriva che, anche a voler supporre la morte per azione omicidiaria della Guerrina, non è possibile sapere se, quel messaggio, sia stato inviato dall’assassino oppure dalla vittima presunta, magari già deceduta, magari, all’epoca, ancora in vita (o magari viva ancora oggi). Quanto alla coincidenza delle celle telefoniche agganciate dal cellulare del prete e dal telefono della Piscaglia: quante sono le celle telefoniche della zona? E se la Piscaglia fosse stata con Padre Gratein in quel momento e poi avesse fatto una tragica fine a causa di altre persone? Aggiungerei un’altra ipotesi: se quel messaggio fosse stato inviato, non dall’assassino ma da colui che ne ha occultato il cadavere per altri?

Tutto questo per dire che il ragionamento del giudice non può essere di tipo ermeneutico-interpretativo. Il giudice non può “scovare” la verità interpretando il fatto. Il lavoro del giudice è, al contrario, di tipo epistemologico, cioè pari a quello dello scienziato empirista che deve attenersi agli elementi che ha a disposizione e valutare questi (senza interpretarli) in ragione delle norme di diritto sulle modalità di trattamento della prova. Per questo, in un’altra vicenda processuale, i giudici sono addivenuti ad una decisione opposta, nel senso di affermare che, in assenza del ritrovamento del cadavere, non è possibile condannare per omicidio. Perché, si ripete, il fatto ignoto (chi è l’assassino) su cui “appoggiare” i fatti noti (gli indizi) è di per sé un fatto ignoto (in quanto non si sa se la persona scomparsa sia stata realmente uccisa). Il ragionamento giuridico non può bypassare la logica, come voluto dall’articolo 606 del codice di procedura penale.

Articolo Precedente

Arezzo, 27 anni a padre Gratien Alabi: “Uccise e fece sparire Guerrina Piscaglia”

next
Articolo Successivo

Genova, uomo decapitato nei boschi: arrestato il nipote. Pm: “Ucciso per l’uso di un sentiero”

next