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Cristo… Mi sembra di non essere mai stata qui.

E invece in Kosovo ho vissuto per mesi. Sul Kosovo ho anche scritto un libro.

Solo che avevo 24 anni, ed ero qui per un’internship all’ambasciata italiana. E infatti il titolo del mio primo libro è: Non aprire mai, perché questo era il consiglio, anzi, l’ordine, questo è quello che avrei dovuto imparare: stare in ambasciata, sempre, e non lasciarmi toccare dal mondo di fuori. Letteralmente. Perché fuori c’erano tutti questi albanesi in fila per un visto, albanesi di ogni età, di ogni professione: ma l’ordine, categorico, era non concedere visti a nessuno, a nessuno per nessuna ragione, e quindi, a giorni alterni, lavoravamo un giorno al piano di sotto e un giorno al piano di sopra, perché per avere il visto bisognava prima fissare un appuntamento, e quindi noi quando eravamo al piano di sotto dicevamo di chiamare il numero del piano di sopra, e quando eravamo al piano di sopra, di chiamare il numero del piano di sotto, e – così, ogni giorno, tutti i giorni. Per mesi. Per anni. Sempre barricati dentro. Perché quando ti laurei in diritti umani, nessuno ti specifica che è per imparare non a difenderli, ma a violarli.

pristina

Newborn Monument di Pristina, che celebra l’indipendenza del Kosovo, 9 settembre 2016

Il Kosovo, all’epoca, era governato direttamente dall’Onu. Un’operazione di peacebuilding che è stata la più ambiziosa mai tentata. E anche la più fallimentare: ha solo due milioni di abitanti, ma pro capite, è costato 25 volte più dell’Afghanistan, e alla vigilia dell’indipendenza, un terzo della popolazione era ancora sotto la soglia di povertà. Ma soprattutto: siamo arrivati qui per proteggere gli albanesi dai serbi, e siamo finiti a proteggere i serbi dagli albanesi.

Non abbiamo fermato la violenza, l’abbiamo solo cambiata.

Diciassette anni e svariati miliardi di dollari dopo, il Kosovo è sostanzialmente uno stato mafia che vive di contrabbando e traffici di ogni tipo. L’Onu ha a disposizione le truppe della Nato, ma non ha mai voluto sfidare i guerriglieri dell’Uck, il vecchio esercito di liberazione nazionale: non ha mai voluto disarmarli. Non ha mai voluto rischiare lo scontro. E non solo per ragioni militari. Il problema, in realtà, era tutelare la retorica ufficiale della guerra. Perché il Kosovo, ricordate?, era la guerra giusta: la guerra senza l’autorizzazione dell’Onu e che però era giusta comunque, la guerra in cui abbiamo bombardato i serbi che perseguitavano gli albanesi, la guerra in bianco e nero, qui le vittime lì i carnefici, qui il torto lì la ragione – e il problema, quindi, era tutelare il successo: l’idea che la guerra, a volte, funziona. Soprattutto quando è la nostra guerra.

La guerra contro i Milosevic, contro i Saddam contro i Bin Laden: contro l’Isis – quando è la guerra del bene contro il male. Per questo la Nato non ha mai disarmato l’Uck, non è mai andata allo scontro: per tutelare non il Kosovo come paese, ma il Kosovo come precedente. Come esempio. E l’Uck, passo a passo, ha infestato tutto il Kosovo. Tutta la politica, tutta l’economia, e oggi capita che un quarto del Pil, in un paese che vive delle rimesse dei suoi emigrati, sia investito in cose come l’autostrada per Durazzo, che è costata 45 volte più di quanto sarebbe costata nel resto d’Europa. 10,8 milioni di euro a chilometro. Un’autostrada inutile per tutti, tranne che per l’ambasciatore degli Stati Uniti che tanto ha insistito sulla sua importanza: e che ha poi avuto un contratto di consulenza da una delle imprese che l’ha costruita.

L’Onu in Kosovo ha scelto di coesistere con personaggi come Ramush Haradinaj, uno che è stato primo ministro nonostante sia stato processato due volte all’Aja per crimini di guerra – e assolto solo perché i testimoni sono stati sistematicamente intimiditi ed eliminati. E mentre, di fatto, l’Onu sosteneva i Ramush Haradinaj, sosteneva l’illegalità, la violenza, la corruzione, i rapporti delle sue agenzie rovesciavano ogni colpa sui kosovari: incapaci, no?, di ricostruire il paese. Di governarsi. Al solito: questi indigeni inadatti alla democrazia.

Non sufficientemente evoluti.

Ma perché i kosovari, in realtà, non li abbiamo mai visti, barricati nei nostri uffici. E a me, adesso, giuro, sembra di non essere mai stata qui. Tutti questi caffè, questi negozi – giuro: come se fosse la la prima volta. Somiglia al resto dei Balcani, Pristina, a tanta altra periferia dei Balcani, è una città anonima, al fondo, con quest’aria un po’ dimessa, il parlamento che sembra un condominio come mille altri. Gli edifici più belli, in realtà, sono quelli di architettura sovietica. Però tutti ti dicono che è una capitale molto viva, con questo corso principale che è tutto caffè e tavolini all’aperto. Ma è solo perché i kosovari continuano a esserci invisibili: l’edificio più elegante ospita Benetton, è questo il lusso, qui, una maglia da venti euro, mentre da una moschea poco lontano si parte per la Siria. Perché nessuno, qui, ha nessuna prospettiva.

Se i caffè sono sempre affollati, è solo perché il 70 percento dei giovani non ha lavoro.

Sembra un segno di vivacità: in realtà è un segno di disoccupazione.

L’ambasciata italiana non è più su in collina, è in centro, adesso. Ma è sempre dietro un’inferriata. Sempre dietro una porta che non si apre mai. Mi fermo a guardarla, e penso quasi di bussare, per un momento, di vedere chi c’è, chi ha 24 anni, oggi, o forse 36, vorrei entrare, vorrei incontrare chi sarei diventata, ma poi penso solo: Cristo, sono salva.

Via, via di qui.

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