di Alberto Piccinini *

Da quando esercito la professione di avvocato ho sempre sentito dire che se un dipendente diventa, nel corso del rapporto di lavoro, inidoneo alle mansioni per cui è stato assunto, può essere licenziato per giustificato motivo oggettivo. Ciò – si diceva – perché un imprenditore non può essere costretto a modificare la propria organizzazione del lavoro in ragione delle sopravvenute inidoneità, perché altrimenti si pregiudicherebbe la libertà d’impresa, sancita dall’art. 41 primo comma della Costituzione. Se poi consideriamo che licenziare per giustificato motivo oggettivo è più facile dall’entrata in vigore della legge Fornero (luglio 2012) e ancor più facile – e a minor costo – per gli assunti dopo il Jobs Act (marzo 2015), il destino delle tante persone che, dopo decenni di fatiche fisiche, si ritrovano a non potervi più far fronte come in passato, sembrerebbe segnato.

Ed invece una rilettura del concetto di handicap alla luce della normativa comunitaria assieme ad una modifica legislativa del 2013 passata quasi inosservata (l’introduzione del comma 3 bis all’art. 3 del decreto legislativo n. 216 del 2003) hanno consentito ad alcuni giudici di rivedere la problematica in modo completamente innovativo.

Bisogna partire dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità del 2006, approvata dalla CE e ratificata da una legge nazionale, che considera handicap ogni limitazione risultante da menomazioni fisiche o psichiche durature che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con altri lavoratori. La nozione di handicap secondo la Corte di Giustizia non si riferisce solo all’impossibilità di esercitare un’attività professionale, ma anche a un ostacolo a svolgere una simile attività. E gli ostacoli alla partecipazione alla vita professionale derivanti dalle “limitazioni” vanno valutati in comparazione con gli altri lavoratori.

Infatti il nuovo comma del decreto legislativo n. 216 prescrive il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, imponendo ai datori di lavoro privati e pubblici (ai secondi “senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”) di adottare “accomodamenti ragionevoli” nei luoghi di lavoro per garantire ai disabili la piena uguaglianza.

Viene dunque rivoluzionato il punto di vista di cui ho parlato all’inizio: l’interesse da tutelare non è più (solo) quello della libertà del datore di lavoro, che anzi è tenuto ad adottare “misure appropriate” (secondo la direttiva CE 200/78: misure efficaci e pratiche destinate a sistemare il luogo di lavoro in funzione dell’handicap, ad esempio adattando locali o attrezzature o  ritmi di lavoro…) con l’unico limite che le modifiche a gli adattamenti necessari non impongano un onere sproporzionato o eccessivo.

Il Tribunale di Bologna (dott. Marchesini, ordinanza 30.10.2013), richiamando la giurisprudenza comunitaria sul concetto di handicap, ha ritenuto certamente rientrarvi un caso di lombalgia cronica da ernia discale L4-L5, riconosciuta anche dall’Inail come malattia professionale indennizzabile: conseguentemente ha dichiarato discriminatorio, e quindi nullo, il licenziamento motivato proprio da quella condizione fisica accertata dal medico competente.

In altro caso di lavoratrice divenuta perennemente inidonea alle mansioni di  commissionatrice da ultimo svolte –  e, secondo il medico competente, anche a svolgerne di diverse avendo prescritto anche il divieto di movimentazione manuale di carichi e di turni notturni – il Tribunale di Pisa (dott.ssa Tarquini, ordinanza del 16.4.2015) ha ritenuto che la società datrice di lavoro fosse tenuta ad adeguare la sua organizzazione d’impresa in modo da consentire alla propria dipendente  di lavorare “in condizioni di uguaglianza con gli altri lavoratori”, nei limiti di uno sforzo proporzionato, individuando una “misura organizzativa non avente alcun apparente costo aziendale”. Ha dichiarato dunque nullo il licenziamento, disponendo la reintegrazione della lavoratrice e il risarcimento del danno da discriminazione.

Analogamente ha fatto il Tribunale di Ivrea (dott. Fadda, ordinanza del 24.2.2016) in un’ipotesi di sopravvenuta inidoneità allo svolgimento della prestazione lavorativa “che possa ostacolare la piena partecipazione alla vita professionale su basi di uguaglianza con altri lavoratori e compromettere la conservazione del posto di lavoro”; questo Tribunale ha in particolare affermato che il datore di lavoro, prima di licenziare, deve adottare tutti gli accomodamenti ragionevoli prescritti dalla legge (considerando non eccessivo un costo di circa 10.000 euro per delle modifiche suggerite da un consulente tecnico).

Conclusivamente, in un’epoca in cui i diritti e le tutele dei lavoratori sembrano perdere colpo su colpo, nuovi imprevedibili spiragli si aprono grazie alla normativa comunitaria, che trova sponda nella sensibilità di alcuni magistrati capaci di coniugare i principi antidiscriminatori con i valori costituzionali di tutela della salute e della dignità delle persone.

Sono avvocato giuslavorista a Bologna e svolgo la professione dalla parte dei lavoratori. Ho scritto svariati articoli in riviste specializzate di diritto del lavoro, oltre a qualche libro in materia di licenziamenti individuali e collettivi e di comportamento antisindacale. Ho anche pubblicato un paio di romanzi e una raccolta di racconti.

Articolo Precedente

Germania: ‘Centro per il rifiuto della carriera’, anche i tedeschi si stufano

next
Articolo Successivo

Beni culturali, il Cnr recluta qualificati ma volontari

next