“Nell’indagine Aemilia si assiste alla rottura degli argini” da parte della criminalità calabrese in Emilia. Una criminalità entrata “in contatto con il ceto artigianale e imprenditoriale reggiano, secondo una strategia di infiltrazione che va “dall’attività di recupero di crediti” e dalle “attività predatorie”, fino “a cercare punti di contatto e di rappresentanza mediatico-istituzionale”. È questo il fulcro delle 1390 pagine di motivazioni alla sentenza di primo grado con la quale il gup Francesca Zavaglia, ha emesso in abbreviato 58 condanne, 17 patteggiamenti, 12 assoluzioni e un proscioglimento per prescrizione. Una sentenza-fiume, arrivata a fine aprile, che ora tratteggia il radicamento della criminalità organizzata in una delle zone più ricche del Paese: tra i reati contestati a vario titolo agli oltre 70 imputati c’erano l’associazione mafiosa, l’estorsione, l’usura, il danneggiamento, il trasferimento fraudolento di valori, la frode fiscale.

Il giudice Zavaglia parla esplicitamente di “salto di qualità” della ‘ndrangheta, con la “la fuoriuscita dai confini di una micro-società calabrese insediata in Emilia, all’interno della quale si giocava quasi del tutto la partita, sia quanto agli oppressori che alle vittime”. Ora invece, anche in una regione una volta immune, si è “prodotto un ambiente globale, fatto di cutresi ed emiliani, nel quale la modalità mafiosa viene oramai apprezzata in tutta la sua carica”.

L’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Bologna, condotta dal pm Marco Mescolini, stando a quanto riportato nelle motivazioni ha messo in luce un vero e proprio sistema, capace ormai di influenzare l’economia, “generando un serio pregiudizio alla libera concorrenza”, in particolare nell’edilizia e nei trasporti. “Il centro di potere imprenditoriale mafioso creato in Emilia è strumento a disposizione della cosca locale per generare e moltiplicare ricchezza e allo stesso tempo, funzionale agli interessi del boss Nicolino Grande Aracri”, considerato il capo della cosca di Cutro, punto di riferimento di quella emiliana. Nonostante un radicamento ormai indiscutibile, in Emilia-Romagna la ‘ndrangheta guarda al sodo: “La cellula di ‘ndrangheta – scrive il gup – ha accantonato alcune suggestive tradizioni in favore della agilità e del pragmatismo assai più funzionali al raggiungimento del profitto criminale”. Nessun rituale dunque e incontri solo in luoghi anonimi come bar, ristoranti: anche perché “un bar può offrire maggiore confondibilità e riservatezza (certamente rendendo più difficoltoso l’ascolto da parte degli inquirenti) rispetto a una cascina abbandonata”, così ricorrente nell’immaginario mafioso.

Altra particolarità della cosca emiliana, si legge nelle motivazioni, è l’assenza di un “capo supremo”: a comandare sarebbe piuttosto “un organismo direttivo formato dai soggetti che godono di rispetto e considerazione da parte degli associati” nonché da parte dello stesso Nicolino Grande Aracri (condannato anche lui nell’ambito di Aemilia a 6 anni e 8 mesi per diversi reati, ma non per associazione mafiosa). Tre sono i nomi di spicco per il giudice: sulla città di Reggio Emilia c’è Nicolino Sarcone (condannato a 15 anni), sulla Bassa Reggiana Alfonso Diletto (14 anni e due mesi), sul piacentino cremonese Francesco Lamanna (a 12 anni). Almeno per un certo periodo inoltre, si legge nella sentenza, tra i capi-promotori ci furono anche Antonio Gualtieri (condannato a 12 anni) e Romolo Villirillo (12 anni e due mesi). L’autonomia della cosca emiliana nei confronti della cosca calabrese è totale, scrive il giudice: “finanziaria, decisionale e operativa”. Tuttavia il rapporto con Grande Aracri ha un “carattere vitale” e spesso gli affiliati fanno riferimento alla cosca madre “al fine di accrescere la propria capacità di intimidazione”.

Tra le motivazioni molte pagine sono dedicate alla vicenda dei due politici coinvolti nell’inchiesta. Giuseppe Pagliani, ex consigliere provinciale del Pdl (oggi consigliere comunale a Reggio Emilia) è stato assolto dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa per non avere commesso il fatto. Giovanni Paolo Bernini, ex presidente del consiglio comunale ed ex assessore a Parma, è stato invece prosciolto per prescrizione dopo che il suo reato è stato declassato da concorso esterno a corruzione elettorale. Secondo il giudice di primo grado infatti le intercettazioni “restituiscono prova del fatto che Bernini aveva promesso e in parte versato 50mila euro a Romolo Villirillo per ottenere il suo ausilio nella raccolta dei voti che lo avrebbero dovuto favorire nella competizione elettorale” del 2007 a Parma. Tuttavia, scrive il gup le stesse prove “non offrono riscontro sufficiente del fatto che l’accordo contemplasse la possibilità di partecipare agli appalti comunali in via privilegiata rispetto ai concorrenti”. Inoltre, si legge nelle motivazioni, sussiste il “dubbio ragionevole della consapevolezza da parte di Bernini del ruolo di Villirillo nella congrega ‘ndranghetistica”.

Intanto nell’aula bunker del tribunale di Reggio Emilia prosegue da marzo, con una lunghissima sfilata di testimoni, il dibattimento del processo Aemilia, con i restanti 140 imputati che non avevano chiesto l’abbreviato. La sentenza è prevista per il 2017.

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