A tre mesi esatti da Brexit, non c’è ancora nessuna certezza su tempi e modi dell’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. Il 22 settembre il ministro degli Esteri, Boris Johnson, si è detto convinto che l’iter “verrà attivato all’inizio dell’anno prossimo”, suscitando le ire del governo. Una sola cosa è sicura: Londra non è ancora pronta, causa mancanza di negoziatori, a intavolare la trattativa con Bruxelles: ne servono 750 e nel Regno Unito non ci sono.

In mancanza di direttive certe, commentatori e giornalisti politici spiano ogni gesto del premier Theresa May o dei suoi ministri alla ricerca di un segno, una dichiarazione, un’alzata di sopracciglio che possa far intuire la direzione. Sarà una hard exit, un taglio duro e senza margini di negoziato, come promettono i più determinati fra i Leavers e l’ala populista del partito conservatore, o una soft exit, con concessioni sull’immigrazione in cambio dell’accesso al libero mercato e del mantenimento dei diritti di passporting, come chiede la City di Londra? E quando sarà invocato davvero l’articolo 50 del Trattato di Lisbona, passaggio formale che segnerà l’avvio di un processo senza ritorno?

C’e’un modo per capirlo, ed e’ tenere d’occhio assunzioni e riorganizzazioni del Public Service. Solo all’indomani del voto si è scoperto che il governo Cameron, certo della vittoria dei Remain, non aveva approntato nessun piano alternativo e che il Servizio pubblico britannico semplicemente non ha le centinaia di esperti necessari a gestire una trattativa complessa come la rinegoziazione di 43 anni di accordi quadro e scambi commerciali in decine di settori, dal retail ai servizi finanziari, alle tariffe doganali.

E solo il 27 giugno, tre giorni dopo il voto e poco prima di lasciare Downing Street, David Cameron aveva creato una Brexit Unit incaricata di valutare rapidamente lo stato di preparazione dell’apparato statale. Esito della ricognizione: in tutto il servizio pubblico del Regno Unito gli esperti di commercio internazionale sono una ventina. Questo perché la Gran Bretagna non ha avuto necessità di negoziatori a livello internazionale dal 1973, quando questa funzione è stata delegata all’Unione Europea.

L’articolo 50 del Trattato di Lisbona prevede che i negoziati vengano completati in due anni. Per dare un’idea della complessità del disentangling, cioà il processo di uscita e di ridefinizione dei rapporti bilaterali, basta ricordare che l’unico precedente di uscita di un Paese membro dall’Unione Europea, quello della Groenlandia, dopo il referendum del 1982, richiese 3 anni di negoziati: e il principale nodo del contendere erano i diritti di pesca.

Dall’altra parte della Manica, a Bruxelles, a trattare con i 20 britannici c’e’ un’armata di oltre 600 esperti di 27 paesi. Da qui, l’esigenza di assumere, o riconvertire, personale, e di farlo in fretta. Ha cominciato proprio il Dipartimento per il Commercio Internazionale, che sta in questi giorni esaminando i curricula per 25 posizioni da trade analysts. Per il momento, la selezione è riservata a funzionari pubblici desiderosi di cimentarsi con quella che il direttore generale del Dipartimento John Alty definisce “una fase incredibilmente eccitante”.

Le competenze richieste sono, ed è un eufemismo, complesse: si va dalle relazioni internazionali agli accordi commerciali al policy-development. Ma il diavolo è nei dettagli, specie del burocratese, e fra le qualità “desiderabili” è indicata “la capacità di raggiungere gli obiettivi strategici malgrado il contesto incerto”. Come dire: bisognerà tenere la barra dritta qualsiasi siano le indicazioni politiche, e soprattutto in mancanza di indicazioni. E c’e’ un altro dettaglio rivelatore: la fretta. Ai candidati viene chiesto espressamente di confermare che i loro superiori siano disponibili a fare a meno di loro al più presto.

Ma il Regno Unito ha bisogno di almeno 750 funzionari solo sul dossier Brexit ed è inevitabile che attinga al settore privato anche per le nomine di maggior peso. Come quella di segretario permanente del Dipartimento, per cui sul sito del Ministero si accettano candidature. Il ministro del Commercio Internazionale Liam Fox è stato criticato per aver aperto la selezione al settore privato (anche se con alcune restrizioni) e, soprattutto, a non britannici. Secondo le linee guida del governo, i ministri possono affidare certi incarichi a cittadini non-britannici solo nel caso “non sia disponibile nessun candidato britannico di pari livello” o nel caso il candidato straniero “abbia qualifiche o esperienza eccezionali per il ruolo”.

Il problema è che, come scrive il cacciatore di teste David Archer proprio sul sito del Servizio Pubblico, la carenza di negoziatori esperti di commercio internazionale è globale. “Da una ricerca su Linkedin emerge che ci sono solo 600 negoziatori in tutto il mondo, di cui solo 40 a Londra. Possiamo reclutare i circa 50 di nazionalità britannica residenti nel resto dell’Unione, qualche ex-funzionario pubblico e qualche membro del team neozelandese responsabili delle trattative con la Cina, ma non c’e’ alternativa al ricorso ai privati”.

Potrebbe essere un ricorso massiccio. Secondo Archer, vista la complessità e la velocità imposte dall’articolo 50, la Gran Bretagna avrà bisogno di gruppi di lavoro attivi 24 ore al giorno. E allora il problema, oltre che di opportunità politica, potrebbe diventare di budget: a questo livello di esperienza, i consulenti del settore privato hanno tariffe da 600-1000 pound. All’ora.

Intanto le parole di Johnson fanno infuriare il governo. Downing Street ha immediatamente smentito il ministro degli Esteri: “La posizione del governo è chiara. Il primo ministro ha dichiarato che non chiederà l’attivazione dell’Articolo 50 prima della fine dell’anno, e la decisione spetta a lei. […] Lo farà quando riterrà di poter garantire l’esito migliore per la Gran Bretagna”. Secondo il Financial Times è palpabile la frustrazione e l’irritazione di Theresa May per le (bellicose) uscite non concordate sia di Johnson che degli altri ministri Brexiteers, David Davis e Liam Fox, che hanno il loro tornaconto politico a spingere, almeno a parole, per una Brexit rapida, netta e autocratica. Una spavalderia che infastidisce le cancellerie europee e Bruxelles, rendendo le trattative tese già in fase preliminare.

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